domingo, 5 de junio de 2016

Non c'è più audio (di Gianluca Freda)

Gianluca Freda, Blogghete, 04/06/2016

“Il diritto signorile di imporre nomi si estende così lontano che ci si potrebbe permettere di concepire l’origine stessa del linguaggio come un’estrinsecazione di potenza da parte di coloro che esercitano il dominio: costoro dicono “questo è questo e questo”, costoro impongono con una parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in tal modo, per così dire, se ne appropriano”. (Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, I, 2)

Giunge inesorabile, con l’approssimarsi fatidico del 24 maggio, l’ora fatale della rutilante lezione su Giuseppe Ungaretti (“Modulo 5 del programma disciplinare, anno scolastico 2015-2016: l’Ermetismo e la poetica del Novecento”). Com’è d’uso, inizio a scandire deferente, dinanzi alla classe in quiescenza, il testo di “Veglia”, compitando con esaperante lentezza i rattratti versicoli, sillabando i participi passati con aspro stridor d’allitterazioni dentali e alveolari (“Butttttato! Massacrrrrratttto! Digrrrrignatttta! Penetrrrrrattta!”). Ammutolisco ossequioso e repentino, per la canonica mezz’oretta, dinanzi alla pausa sublime tra la prima e seconda strofa, mentre gli allievi levano torpidamente verso la cattedra occhi ricolmi di speranza in un mio improvviso colpo apoplettico; come in quella leggenda metropolitana del maestro morto in piedi mentre leggeva lo “Zang Tumb Tumb” di Marinetti, senza che nessuno distinguesse i suoi rantoli dalle deflagrazioni futuriste della Battaglia di Adrianopoli.

Istrionicamente, provoco la classe assonnata, affermando che per offrire della lirica in esame un’interpretazione adeguata, occorrerebbe fermarsi in assoluto silenzio, per cinque o sei ore, dinanzi alla pausa strofica, prima di dare lettura degli ultimi, densissimi tre versi, esito di una lunga riflessione condotta nel più profondo silenzio. Ottengo in risposta il pianificato sghignazzo oligofrenico ed alcuni ilari nitriti (iiiiiii...). I più ribaldi propongono di andare a prendere la tenda da campeggio, la chitarra e le salsicce da arrostire, in attesa del lancinante explicit lirico.

Il silenzio è qualcosa che in Ungaretti assume un valore poderoso, un’intensità di significato inaudita, ma che risulta oggi impossibile da comunicare alla generazione della discoteca e del battibecco whatsappico. Comunicare il silenzio è, in effetti, più un ossimoro che un obiettivo didattico razionalmente concepibile.

Non si può capire una poesia come “Veglia”, se non si prova a immaginare come dev’essersi sentito Ungaretti in quell’antivigilia d’un Natale di guerra di più di cent’anni fa, nel buio della trincea, nel gelo del Monte San Michele, con la morte stesa al suo fianco e tutt’intorno il silenzio più profondo che si possa immaginare. A sprazzi qualche breve lamento dei compagni infreddoliti o feriti, qualche scoppio di artiglieria lontana o minacciosamente prossima, poi di nuovo silenzio assoluto, per ore ed ore. Unica luce quella della luna, che nel succedersi dei versicoli rivela, un pezzo alla volta, l’anatomia sconvolta del compagno straziato: la disarticolazione delle membra (“buttato”), le ferite orribili (“massacrato”), la bocca, i denti (“digrignata”), le mani contorte.

E’ in queste notti, è in questo gelo rischiarato dai razzi illuminanti, è in questo silenzio senza fine che termina, ciclicamente e inevitabilmente, il rumore assordante delle nostre fasi storiche. In esso tacciono i nostri discorsi. Qui finisce la prosopopea positivista sulle illimitate capacità dell’uomo di creare progresso e benessere attraverso la tecnologia. Qui tacciono tutte le chiacchiere rivoluzionarie sull’eguaglianza e sui diritti: si tocca ora con mano che qualcuno o qualcosa, come diceva Totò, aveva già provveduto a renderci uguali fin dall’alba dei tempi. Qui, alla presenza tangibile non solo della morte, ma della fragilità umana (eravamo come foglie, sugli alberi, d’autunno, e non lo vedevamo!) ammutolisce la retorica risorgimentale sul coraggio, sul valore, sugli eroi. Qui, in quest’oblio punteggiato da scoppi fugaci, alla starnazzante e secolare protervia dell’Europa parolaia viene staccato l’audio, viene tolto il microfono per sempre.
Ungaretti tenta come può di rendere graficamente queste inopinate sonorità della guerra, con le sue poche sillabe scarne che emergono dall’immenso bianco della pagina come piccoli e rari suoni immersi in un silenzio infinito. E’ questo che dà alla sua poesia quel ritmo e quella cadenza così peculiari.

Ma in quel silenzio, all’improvviso, si nota qualcosa di strano, mai visto prima. Le parole, così affondate in quella quiete, acquisiscono inaspettatamente una forza straordinaria, una capacità non solo evocativa, ma creativa, che nessuno poteva sospettare. Le parole “vita” e “morte” iniziano a risplendere di un significato diverso, così dissimile da quello limitante e ridicolo in cui lo squittìo della scienza medica le aveva confinate; la parola “fratelli”, udita pronunciare una notte nel buio della trincea, riesce a trasformare tanti singoli individui perduti nell’oscurità in un gruppo coeso, capace di ribellarsi alla propria fragilità e di resistervi; parole banali come “foglie”, “alberi”, “mare”, “nebbia”, acquisiscono improvvisamente un senso poderoso, quello che possedevano quando per la prima volta, all’alba dei tempi, un uomo utilizzò certi suoni per identificare sezioni specifiche della realtà, distinguendole così dal tutto e portandole ad esistenza. La potenza demiurgica delle parole, annichilita dal frastuono della comunicazione, umiliata dall’uso quotidiano, accuratamente disinnescata dai barbagianni preposti alla trasmissione del sapere, si riprende, nel silenzio, la sua funzione generatrice.

E la luce! Quando la vedi sorgere, quando, in trincea, la senti attenuare il freddo e dissipare il buio, capisci che non è più soltanto una parola, né il fenomeno astronomico d’imbarazzante prosaicità descritto nei libri grifagni delle accademie. Essa è invece una divinità che ti parla, che ti trasmette con un linguaggio misterioso il senso dell’appartenenza ad un’immensità sacra di cui sei parte, che t’illumina d’immenso. Una scoperta che ti riempie di una gioia folle, ultraterrena. La stessa gioia che ti farà intitolare, paradossalmente, “L’allegria” la raccolta delle tue liriche nate nel fumo e nel pianto della guerra.

In trincea i dogmi della scienza positivista perdono tutto il loro charme: non è più così semplice, adesso, chiamare “barbari” o “selvaggi” i cavernicoli che adoravano il sole, vero?

Ci si sente obbligati ad onorare questo miracolo, questa resurrezione delle parole, ponendo ciascuna di esse, con il suo immenso carico generativo, in posizione di spicco, incoronandola come unità metrica a sé, lasciandola risplendere, sola al centro del silenzio, del potere che ne emana.

“Veglia” non è altro che questo: un risveglio, sfolgorante e inarrestabile, della potenza creatrice delle parole nel singolo individuo, il quale riscopre, nella gestazione del silenzio, di contenere in sé la loro energia primordiale. Le sue parole, ridestate, “penetrano” ora come un fiume in piena nel balbettìo sconcio della comunicazione di massa e generano, da questa morte, un desiderio di vita incontenibile. Ricostruiscono una realtà nuova sulla frastornante tabula rasa di valori e certezze da cui ogni epoca storica cerca infine scampo, ricorrendo alla guerra come a una palingenesi: “Dopo tanta/ nebbia/ a una/ a una/ si svelano/ le stelle”.

Ricordo, da bambino, di aver sperimentato questo potere delle parole in certi pomeriggi silenti e pieni di sole – più montaliani che ungarettiani, in verità – in cui, mentre il mondo giaceva addormentato, davo un nome alle mie sensazioni e ai miei pensieri. Fu in questi pomeriggi che riconobbi in me – nominandoli e facendoli così esistere – la malinconia, il rimorso, il dolore. Fu in questi pomeriggi che, col potere della parola, decisi che Dio (intendo: il Dio terribile e vendicativo delle Sacre Scritture) non esisteva e non poteva minacciarmi, scacciandolo così per sempre dal mio paradiso terrestre. Fu in quei pomeriggi che costruii la mia realtà, come fanno tutti i bambini che si avviano a diventare adulti: ed era una realtà ricca di significati, complessa, che connetteva strettamente universo esterno e universo interiore. Una realtà in cui, tutto sommato, ho vissuto abbastanza felice.

Se quanto detto fin qui sembra soltanto il delirio di un folle, chiedo scusa ai lettori, nonché ai miei allievi, ai quali, anno dopo anno, propino questa solfa. Lo faccio nella segreta speranza di produrre, anche in loro, il “risveglio” che una vita fa salvò me (e Ungaretti) dalla schiavitù verso quei signori del rumore (potremmo chiamarli “dei del tuono”), i quali, appropriatisi delle parole, ne gestiscono il significato e il potere creativo, affogandole nel bailamme mediatico, mutilandone e stravolgendone l’accezione, costringendoci tutti ad abitare nella realtà rarefatta e distorta che essi stessi hanno progettato per noi.

Osservo i messaggi che piovono sul mio gruppo Whatsapp: parole ridotte a scheletri, a resti consonantici ossificati (xkè, tnt, nn…), ad orribili spettri senz’anima, composti di solo significante, che ululano telematicamente i loro lugubri sogghigni (Eheheheh, ahahahah…); oppure rimpiazzate, dopo morte, da miserande faccine giallastre che, in un gesto d’estremo oltraggio, si producono in pernacchie, linguacce e strabuzzo d’occhi, là dove un tempo regnava il calore vibrante del senso compiuto.

Osservo le prime pagine dei giornali ed è un’esibizione degli orrori: parole come pesci morti, distese con pupille spente nella loro bara di sale refrigerata. “Addio a Tizio”, “Addio a Caio”… Ogni giorno che Dio manda in terra si dà l’addio a qualche idiota. La parola “addio”, così privata, così evocativa, così semanticamente densa, degradata a barboso necrologio, a coccodrillo piagnucolento di celebrità insulse. Parole un tempo vitali come “violenza”, “immigrati”, “donne”, “razzismo”, sterilizzate, separate dal loro significante concreto e poi ricomposte in mille e mille configurazioni ideologiche contronatura, come agghiaccianti mostri di Frankenstein. Parole cancellate per sempre, come “negro”, “giudeo”, “handicappato”, “minorato”, “vecchio”. Parole che si dibattono come mosche nella tela del ragno, come “bimbi”, un tempo evocativa di giochi e sorrisi, oggi effigie di cadaverini straziati dalle bombe. Sarà per questo che sento ormai, negli asili nido, definire “ragazzi” anche i lattanti? I bimbi evocano ormai solo immagini di morte…

Su tutto incombe l’oscena macedonia di serio e faceto, di tragico e frivolo, di eccidio e musica rap, che appiattisce, tritura, mutila le parole, riducendole a suoni semanticamente neutri e dunque tinteggiabili, all’occorrenza, della sfumatura preferita dai loro manipolatori.

I fabbricanti di mondi erigono per noi sontuosi templi del rumore (reality show, talent show, talk show, discoteche), ben sapendo che il potere demiurgico della parola nasce nel silenzio e muore nello strepito. “Non gridate più, non gridate / Se li volete ancora udire / Se sperate di non perire”, supplicava inascoltato l’Ungaretti del secondo dopoguerra, quando la macchina della propaganda stava rimettendosi in moto come una schiacciasassi, con una pervasività mai vista prima.

Non so più come spiegare, ai miei alunni e al mondo, che questa è un’immensa tragedia.

Dove non ci sono più parole, non ci sono idee, e dove non ci sono idee non è più possibile costruire nessuna realtà, se non quella rarefatta e disadorna che può scaturire dalle poche, storte e macilente sillabe di cui ancora i media non si sono appropriati. Senza parole siamo nudi, impotenti, inquilini con sfratto esecutivo di una realtà in affitto. Senza parole, siamo servi degli dei del tuono.

Riuscite a capire di che cosa siete prigionieri?

Riuscite a capire chi vi ha tolto l’audio, chi vi ha strappato la voce?
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