Il ministro degli esteri Massimo D'Alema era a Brasiila a Capodanno per l'insediamento di Lula al suo secondo mandato. La settimana scorsa ha incontrato Michelle Bachelet in Cile e oggi è in Perù dove si vedrà con il presidente Alan Garcia.
D. Le tappe del suo viaggio sono nei Paesi della sinistra latinoamericana considerata meno radicale. E' una scelta politica?
R. "La scelta nasce anche da rapporti di simpatia ed amicizia, in particolare con la presidenta Bachelet e con il presidente Lula. In Perù, certamente, c'è l'interesse per il ritorno al governo di Alan Garcia, un esponente storico della sinistra. La visita a Lima ha poi ragioni specifiche: andiamo a firmare un accordo per la riconversione del debito".
D. L'America latina della sinistra light e quella radicale dell'asse Avana-Caracas-La Paz pensa che sia una distinzione possibile o che non abbia nulla a che vedere con la realtà politica di questo continente?
R. "Ciascun Paese ha una sua vicenda particolare. Non ha molto senso omologare esperienze tra loro molto diverse. C'è una differenza fondamentale tra Cuba, Venezuela e Bolivia: Chavez e Morales hanno partecipato alle elezioni e le hanno vinte. Questo a Cuba non accade ed è una differenza piuttosto importante. Si deve valutare l'azione dei diversi governi: ci sono governi che definirei populisti piuttosto che radicali e governi che intraprendono con maggior coerenza un cammino di ricerca della giustizia sociale nel quadro di economie di mercato aperte. Da questa punto di vista penso che l'esperienza brasiliana e di altri Paesi sia più significativa di altre. Lula è riuscito a tenere insieme valori di grande forza della sinistra, ha perseguito l'obiettivo della riduzione delle disuguaglianze con risultati concreti, mostrando contemporaneamente la capacità di rimettere il Brasile sul cammino dello sviluppo economico con la realizzazione d'una politica di bilancio rigorosa. Ritengo questa un'esperienza molto più espansiva rispetto a quella dei governi populisti. Non a caso il Brasile è andato acquisendo sul piano internazionale un ruolo di grande prestigio: è il risultato di una politica aperta. Vale anche per il Cile che ha coltivato relazioni con gli Stati Uniti, con l'Europa e con l'Asia. L'intensificarsi delle relazioni con l'Asia è la grande novità latinoamericana degli ultimi anni. L'Italia in questo momento ha grandi opportunità politiche in America latina. Senza togliere nulla al ruolo di Spagna e Portogallo, l'Italia si pone come l'altro grande Paese europeo che può rappresentare un ponte possibile tra America latina ed Europa. E' stato compiuto un errore di valutazione, qualche anno fa, quando è parso che questo continente fosse emarginato dalla globalizzazione, che perdesse via via d'importanza rispetto al grandi processi economici. I rapporti si sono rinsecchiti. Banche italiane si sono ritirate da questi mercati. Tuttavia l'Italia c'è ancora. Ci sono la Fiat, la Pirelli, la Telecom. Le imprese piccole e medie italiane hanno una grande opportunità da queste parti".
D. E in Argentina? Lì i rapporti rimangono freddini.
R. "Abbiamo dei problemi fortemente legati alla vicenda del debito argentino che ha coinvolto molti piccoli risparmiatori, stiamo cercando una via d'uscita perché è evidente che l'Italia non può rimanere in un rapporto negativo con un Paese in cui più della metà della popolazione è di origine italiana. E' necessario trovare una via d'uscita a questa difficoltà.
D. Una comunità italiana numerosa c'è anche in Venezuela: quali sono i rapporti attuali del nostro governo con quello di Hugo Chavez? Come giudica il crescente coinvolgimento di militari nell'amministrazione venezuelana?
R. "Nel passato abbiamo più volte espresso preoccupazione sia per la presenza dei militari nella vita pubblica venezuelana, sia per la veemenza spesso registrata a Caracas nella lotta politica. Questo non toglie che Chavez ha vinto le elezioni e non mette certo in discussione la legittimità del suo governo. Credo però che la veemenza propagandistica non giovi all'immagine del Venezuela. La candidatura venezuelana al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, ad esempio, non è stata aiutata dal discorso in cui Chavez ha inutilmente aggredito gli Stati Uniti, con i quali si può esser critici, a noi tante volte è capitato di esserlo. Credo però, in generale, che definire "diavolo" qualcuno, come ha fatto Chavez con Bush, sia una sciocchezza. Le nostre preoccupazioni nei confronti del Venezuela non nascono da pregiudizi, ma da comportamenti concreti della leadership di quel governo. Ciò nonostante manteniamo un rapporto aperto. L'Eni in Venezuela ha un contenzioso serio, importanti concessioni sono state di fatto espropriate dal governo. Non per questo rompiamo le relazioni diplomatiche".
D. Tracce di populismo nel governo Lula non ne vede?
R. "Credo che la sfida per la sinistra sia conciliare il raggiungimento dei suoi ideali con la logica di un'economia aperta e di una società plurale: il Brasile questo sta facendo. Durante la prima campagna di Lula c'era una grande paura nei suoi confronti da parte del mondo economico. Ricordo di aver incontrato qui in Brasile imprenditori italiani molto preoccupati, che temevano le nazionalizzazioni. Questo mondo imprenditoriale ha trovato invece in lui un interlocutore serio, valido. Il governo Lula è l'esperienza significativa di una sinistra moderna che persegue la giustizia sociale e la dignità del lavoro, ma lo fa ricercando la costituzione di un blocco sociale e non attraverso l'agitazione di una parte della società contro l'altra. Quest'impressione è condivisa anche da ambienti conservatori. L'amministrazione americana, che ha perduto molta influenza in America latina e che guarda a questo continente con preoccupazione, vorrebbe rafforzare il dialogo con il presidente del Brasile. Lo considera un ottimo interlocutore".
D. "Lula ha ottenuto buoni risultati nella redistribuzione della ricchezza elargendo sussidi ai poveri. Anche Chavez ha ottenuto buoni risultati in Venezuela redistribuendo la rendita petrolifera. Perché il primo metodo di redistribuzione le piace e il secondo invece lo condanna? In fondo sempre di elemosina ai poveri si tratta.
R. "Elemosina è una parola sbagliata. Redistribuire la ricchezza è uno dei compiti principali degli Stati moderni. In Europa per farlo abbiamo creato il welfare state che è una forma di redistribuzione della ricchezza. Detto questo il problema è che Lula redistribuisce una ricchezza prodotta dal Brasile perché è consapevole che per redistribuire ricchezza bisogna crearla attraverso lo sviluppo economico. Redistribuire la rendita petrolifera è invece meno lungimirante. Se non si utilizza quel denaro per sviluppare un'economia moderna, si rischia di dilapidare il capitale, di guadagnare un facile consenso ma di lasciarsi dietro un Paese povero".
D. Lula, esattamente come Chavez, ha moltiplicato la sua politica di sussidi ai poveri in campagna elettorale.
R. "Anche Berlusconi nella civilissima Europa ha ridotto le tasse alla vigilia delle elezioni".
D. Perché alla distribuzione di denaro pubblico compiuta da Lula lei guarda con benevolenza e la stessa operazione compiuta da Chavez la fa gridare al populismo? Lo strumento usato è lo stesso, l'obiettivo pure.
R. "Non è lo stesso strumento. Lula si sforza di unire il Paese, Chavez governa anche attraverso la mobilitazione permanente dei suoi seguaci nei confronti dell'altra parte del Paese. Il populismo non coincide con la redistribuzione del reddito e il Brasile non è un Paese populista, è una democrazia moderna e solida, fondata sulla società civile articolata in forme diverse di partecipazione. Non mi pare che questo sia il modello di altri Paesi sudamericani. Lula è il leader più significativo dell'area, non foss'altro che per la ragione banale che il suo è un Paese enorme e guida il continente. Lula ha elaborato un'esperienza del tutto originale: il partito dei lavoratori non appartiene al dogmatismo della sinistra tradizionale, era una forza eretica, eterodossa, innovatrice, originale".
D. Considera il discorso pronunciato da Raul Castro il 2 dicembre a L'Avana un discorso di investitura?
R. "Non lo so. Indubbiamente Raul Castro è l'uomo sul quale grava la responsabilità di condurre quella che io spero sia una transizione verso una società più aperta e democratica. Aggiungo che spero sia una transizione rapida".
D. Quali conseguenze pensa comporti l'esecuzione di Saddam Hussein?
R. "C'è anzitutto una questione di principio: la pena di morte è uno strumento inaccettabile e inefficace. Se Saddam Hussein fosse stato condannato all'ergastolo per i suoi numerosi crimini il messaggio diffuso sarebbe stato di civiltà e di grande forza. Mi dispiace vedere la sua fine festeggiata in Iran e negli Stati Uniti. E' un accostamento che mi colpisce dal punto di vista dei valori. Dal punto di vista politico, poi, credo che ucciderlo sia stato un grave errore, ma questa è una valutazione secondaria. Certo la sua morte non aiuterà la pacificazione dell'Iraq. Lascerà una scia di rancore, seminerà volontà di vendetta".
D. Quali sono i principali obiettivi della sua politica estera?
R. "Allargare l'orizzonte della politica estera italiana: l'Italia deve guardare al mondo, anziché con la paura della globalizzazione, con una visione aperta e ottimistica, considerarla una grande opportunità. Considero poi necessario adoperarsi per il rilancio dell'integrazione europea, che è in stallo. E, infine, giocare il nostro ruolo di media potenza, operare nel Mediterraneo per la pace. Quando l'abbiamo fatto, di recente, abbiamo svolto un ruolo fondamentale che ci è stato universalmente riconosciuto. Vogliamo operare per imprimere una netta svolta politica in Medio Oriente dove la logica della guerra al terrorismo non ha dato risultati e, al contrario, ha aggravato i conflitti. Questa svolta politica individua nella soluzione del conflitto israelo-palestinese una priorità".
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