miércoles, 23 de septiembre de 2015

Liberalismo e libertà: l’ossessione della proprietà privata e le origini della schiavitù dell’uomo-merce

Dante Lepore/Ponsinmor, Torino 22/09/2015

Immagine: E. Delacroix, La Libertà che guida il popolo, 1830. L’opera è studiata e realizzata in forma piramidale

Ci sono ancora, tra amici e «compagni», coloro che sostengono che la schiavitù è cosa del mondo antico e che la nostra mentalità ormai è impregnata di liberalismo e le istituzioni democratiche lo sono altrettanto al punto da non permettere un rapporto di lavoro fondato sulla pura coercizione forzata al lavoro. Queste affermazioni sono false e ipocrite al tempo stesso. False perché è un fatto che la costrizione al lavoro anche minorile, persino gratuito nelle condizioni più disumane e spesso mortali, si diffonde nelle metropoli capitaliste e nelle campagne; ipocrite, perché viene contrabbandata o come fenomeno residuale, o come fenomeno razziale, senza nesso con la condizione economica e sociale di sfruttamento che nel capitalismo è trasversale per tutte le razze. L’idea di fondo è che dove c’è libertà e istituzioni liberali e democratiche non ci sarebbe schiavitù. Tutto falso, come spero di dimostrare in questa nota.

Non c’è parola al mondo più usata, orpellata e abusata della libertà, in ogni lingua, in ogni continente, in ogni attività di pensiero, di espressione artistica, come nella comune pratica di vita quotidiana. Capita di discutere con persone, spesso importanti, per lo più benestanti, o che vantano di essersi fatte da sé, che si professano e atteggiano paladini e alfieri di una generica imprecisata libertà, oggi sempre accostata al «progresso» economico e alla «crescita» o al «benessere», oppure con persone come il mio compagno di liceo Beppi, il quale sostiene di essere nato anticomunista o, come si diceva una volta, anticomunista viscerale, e diventato vieppiù liberale…«im-moderato», persone cioè anche commoventi nel porre il loro ardore a supporto di questo principio che definiscono liberale e il cui nemico, praticamente unico, vedono in un «comunismo», e nel marxismo che lo propugna, percepito proprio come quello «spettro» che dal 1848 aleggia ancora sopra il mondo a turbare i loro sogni, ossessionati come sono dal timore di perdere non tanto il fantasma di quella generica e vacua libertà quanto la proprietà nel godimento esclusivo e nella conservazione di beni materiali, benessere, sicurezza e tutto ciò che vi è connesso. Ora, si dà il caso che nell’evoluzione complessiva del pensiero moderno, proprio il marxismo, come ricordava l’eminente studioso francese A. Cornu (1), segna il punto d’approdo dei tentativi fatti dopo il Rinascimento e la Riforma per adattare alla profonda trasformazione economica e sociale determinata dalla costituzione e dell’evoluzione del sistema di produzione capitalistico, una nuova concezione del mondo, non più di carattere statico ma dinamico.

Un nuovo mondo moderno, che germinava da dentro al vecchio, contrapponendosi al sistema produttivo e alla vita sociale feudale, messi in crisi dalle grandi scoperte geografiche del XV secolo, sistema produttivo e vita sociale che, allargando il ventaglio dei bisogni, richiedevano una riorganizzazione economica e sociale, fondata sulla libertà di estendere e incrementare la produzione e circolazione della ricchezza, e ciò comportava un cambiamento nelle precedenti nozioni di libertà, di movimento, di progresso. Tale movimento di liberazione, a livello spirituale, si espresse poderosamente con il Rinascimento e con la Riforma, battendo in breccia il principio d’autorità, affermando concretamente, e poi in termini di diritto, la libertà di pensiero e di critica, anche contro il dogma religioso, e persino di rivoluzione contro la tirannia, anche mediante il regicidio, come sostenevano i «monarcomachi», opponendo la «sovranità» alla «maestà». 

La borghesia, relativamente più dotata di mezzi materiali e culturali, assurta a classe universale nella sua fase ascendente, assorbì questo movimento spirituale, più vasto e profondo di lei stessa come classe confusa col «popolo», nella forma del razionalismo (il lume della ragione contro l’oscurantismo irrazionale), che tende a identificare in termini di «progresso» o «crescita» nello sviluppo economico. Ma, a causa della propria insufficienza e della ristrettezza reale delle condizioni economiche e sociali, in maniera differenziata nei nascenti Stati nazionali europei, tale progresso s’intisichì relativamente presto nella limitata ipostasi ideale di una libertà astratta, misurata su una altrettanto astratta volontà generale e in un progresso astrattamente spirituale di una ragione fatta coincidere con una natura ritenuta essa pure immutabile ed eterna, fino a rifugiarsi nuovamente nella concezione cristiana, precedentemente combattuta, che privilegiava la realtà spirituale opponendo lo spirito alla materia, l’uomo astratto alla natura sempre buona, anche quando è cattiva. Lo stesso Tocqueville rilevava su se stesso questa angusta ambizione di libertà quando sosteneva di amare «con passione la libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non la democrazia…non sono né del partito rivoluzionario né del conservatore. Ma dopotutto tengo più al secondo che al primo» (2). 

L’approdo irrazionale, meschinello e incoerente di questa aberrazione ideologica è sempre più evidente, oggi, nell’incapacità di vedere il degrado della natura e dell’ambiente come elementi di cui anche l’uomo è parte organica, di contro ad un millantato sviluppo intellettuale e ad un perfezionamento morale che non esistono da nessuna parte. Del resto, furono proprio i grandi rivoluzionari «liberali» del 1789, Robespierre e Saint-Just, nutriti dalle dottrine razionaliste di Rousseau dei principi di libertà, uguaglianza, fraternità, che precisarono il fondamento individualistico e materiale di tale principio di libertà come corrispondente, sul piano economico, alla libertà di produzione e circolazione della ricchezza e, sul piano politico e sociale, al diritto, per l’individuo, di non trovare ostacoli nella ricerca del godimento del profitto (3).

Individui indipendenti dalla società e dalla storia e società concepita come somma di questi individui. In definitiva, con questa concezione dell’individuo, indipendente dalla società e dalla storia e della società concepita come somma di questi individui, la borghesia veniva sempre più rendendosi conto della velleitaria e utopica aspirazione rousseauiana a reintegrare, con il suo immaginario «contratto sociale» l’uomo nella società e nella natura, e ripiegava in una sua integrazione in un Stato, prima idealizzato anche esso, per poi assumere sempre più la forma più adatta alle esigenze evolutive del capitale complessivo sociale. In questi termini, l’aberrazione perverrà alle forme di Stati razzisti come quelli a partire dai liberalissimi Stati Uniti d’America, a recenti del Sud Africa e Israele.

Fu pure così che, dopo due guerre mondiali nate dalla «libera competizione» tra monopoli di quelle liberali e liberiste borghesie, la mentalità in cui oggi ci troviamo immersi, e forse lo saremo ancora per molto, a ben vedere non è che una forma consunta di quella stessa mentalità borghese (in senso sociologico weberiano, dell’etica piagnona qui non ci interessa), così come si è venuta precisando dall’800 in Europa, espressione del processo storico di deradicamento sociale dell’individuo alienato, espropriato paradossalmente (proprio al seguito della progrediente affermazione della proprietà «privata» che separa l’uomo dal mezzo di lavoro) della sua originaria socialità, a lui fattasi estranea e ostile, una mentalità che non esprime più nemmeno le idee dell’uomo astrattamente considerato, come fu nel razionalismo del secolo dei lumi, ma racconta e descrive più specificamente quella fase storica che sta indirizzando la borghesia, ormai declinante rispetto alla sua ascesa rivoluzionaria contro l’ancien régime, a sancire la sacralità della proprietà privata non più solo feudale ma borghese, come nuova forma decentrata del potere assolutista e del nuovo privilegio fondato non più soltanto sulla terra/rendita fondiaria e immobiliare e sulla nascita/stirpe, bensì sul rapporto sociale capitalistico, come diritto/pretesa ancor più cinica ad un prelievo sul sudore e sangue di chi produce, nella forma di spartizione del plusvalore (in rendita assoluta, in profitto industriale e commerciale, interesse, dividendo, imposta) e a proclamare solennemente, come suo fondamento, le prerogative dell’uomo egoista, ridotto ad un «valore» quantitativo (quanto possiedi, tanti vali!), estraniato da ciò che è comune, frammentato, ossia dell’uomo borghese, a cui il cittadino, apparentemente integratocioè «socializzato», viene asservito.

Così il liberalismo borghese viene spogliandosi sempre più degli antichi orpelli storicamente assunti e si manifesta come la metamorfosi paradossale di una mentalità che insorge contro l’arcinota famigerata piramide feudale per edificarne una ancora più pesante, solo però più ‘liberale’, garantista, legalitaria, attaccata alle istituzioni e costituzioni, alle scartoffie avvocatesche, ai codici, alle osannate leggi, possibilmente scritte, in quella tendenza sempre più marcata alla trasformazione di tutta questa classe in un ceto sociale di burocrazie, anch’esse cartacee (industriali, commerciali, aziendali, sindacali, funzionari a vario titolo nell’amministrazione pubblica della contabilità del capitale, nella magistratura, in definitiva nella gestione molecolare del potere, sia militare, che politico, che giuridico e persino religioso).

Una libertà piegata non a rivendicare il nuovo ma a conservare ciò che si possiede come proprio, privato. Una mentalità, inoltre, che si presume detentrice assoluta di una libertà che, a ben vedere, è essenzialmente vuota di contenuto e negativa proprio quando inneggia al liberalismo che l’avrebbe quasi inventata o tratta fuori dalle tenebre! Neppure è un caso che gli intellettuali borghesi, quando parlano di libertà, si rifanno, oltre che alla «gloriosa» rivoluzione inglese, alla Rivoluzione francese col suo underground americano, la cui libertà dagli inglesi, proto liberali divenuti coloniali, non valeva per gli schiavi neri ai quali era riservato un pessimo trattamento se fuggitivi (4):

Nella sua stesura originaria (1787), la Costituzione americana accettava l’istituto della schiavitù e addirittura «incorporava fra i suoi principi la repugnante legislazione contro gli schiavi fuggitivi». Inoltre essa lascia intatte restrizioni al diritto di voto stabilite dai singoli Stati, che escludevano gli Afroamericani, le donne e i nativi (5).

Il Fugitive Slave Act fu approvato nel febbraio 1793 dal Congresso degli Stati Uniti e firmato dal presidente G. Washington il 12 febbraio, ma era già stato affrontato nel documento finale di Filadelfia del 1787. Lo stesso liberalissimo George Washington possedeva schiavi, e lamentava che uno dei suoi schiavi fuggitivi fosse «aiutato» da una società di quaccheri formata apposta (6). La legge negava agli schiavi «oggetto di proprietà» la possibilità di difendere i propri diritti costituzionali e il Fugitive Slave Act del 1793 negò tale diritto anche agli schiavi «liberati». Agli schiavi fuggitivi, inoltre, non era permesso di ottenere processi con una giuria, e non era raro che ai fuggitivi non fosse permesso mostrare prove della propria libertà dinanzi alla corte.

Infine, chiunque aiutasse gli schiavi, era punito con una multa di 500 dollari (7). Quello della «rendition», della restituzione e traduzione degli schiavi fuggitivi e relativa legge, era materia costituzionale volta a tutela della proprietà privata di chi possedeva schiavi, in un periodo in cui fioriva la «tratta degli schiavi». La stessa «gloriosa» rivoluzione inglese del 1688-1689, uno dei modelli ispiratori del liberalismo, coincise con un grande balzo nella partecipazione dell’Inghilterra alla nuova economia schiavistica nell’Atlantico.

Finora gli storici si erano orientati per lo più ad esaminare le storie di schiavitù e capitalismo come due narrazioni separate. Ma già Marx osservava che il capitalismo sussume anche le vecchie forme di sfruttamento adattandole alla legge del valore. Con l’ascesa dell’Atlantico transnazionale, la formazione del «mercato mondiale» e l’avvento della storia del mondo vera e propria, gli studiosi stanno facendo rivivere questo nesso, andando perfino oltre i dibattiti cominciati con il lavoro classico di Eric Williams, Capitalismo e schiavitù (1944), secondo cui la schiavitù non nacque dal razzismo (che del resto era sconosciuto dall’antichità fino all’epoca moderna e comincia ad essere teorizzato proprio nel contesto dell’economia politica inglese e delle Weltanschauung illuminista, per trovare una sistemazione teorica col conte De Gobineau (8)). Al contrario, il razzismo fu inequivocabile conseguenza della schiavitù capitalista. Il lavoratore non libero nel Nuovo Mondo era di pelle bruna, bianca, nera e gialla; era cattolico, protestante e pagano. I primi furono gli «indiani» nativi, inefficienti perché abituati alla libertà e inadatti, anche per costituzione, al rigore della schiavitù di piantagione, ma solo a lavori di breve durata. Gli Spagnoli scoprirono che un negro «valeva» quattro indiani.

Le coltivazioni di zucchero e cotone portarono all’uso di neri, chiamati all’uopo «negri da cotone», e «muli da zucchero». Ma, a conferma che alla base della schiavitù contemporanea non c’è il razzismo ma la logica capitalista del profitto e cioè il liberismo avverso a lacci e lacciuoli, c’è il fatto che a sostituire da subito l’inefficiente indiano non fu il negro ma il bianco povero, nella forma di «servi per contratto» (prima di partire dalla madre-patria avevano firmato un contratto, reso coattivo per legge, che li impegnava a servire per un certo periodo di tempo in cambio della traversata) oppure come «servi a riscatto» (concordavano col capitano della nave, come con gli odierni scafisti, di pagare la traversata all'arrivo o entro un dato periodo di tempo; se non lo facevano erano venduti dal capitano al miglior offerente); altri infine erano dei condannati, deportati oltremare, per una intenzionale politica del governo, a scontare la pena per un periodo determinato.

«La condizione di questi servi bianchi peggiorò progressivamente nelle piantagioni. La servitù, che in origine era stata un libero rapporto personale fondato su un contratto volontario a tempo in cambio del trasporto e del mantenimento, si trasformava in un rapporto di proprietà che permetteva, durante il periodo di servizio, un controllo di varia intensità sui corpi e sulle libertà delle persone, quasi si trattasse di cose». Per il negro la perdita della libertà, che per il servo bianco era di durata limitata, era perpetua. Fu questa differenza per cui il servo che proveniva dall'Europa poteva sperare di trovare presto in America quella libertà che il rapporto feudale gli negava a far si che i servi liberati divenissero piccoli proprietari contadini, insediati nelle zone interne, forza «democratica» in una società di grandi proprietà aristocratiche a piantagione, e furono i pionieri della espansione verso l'Ovest a detrimento dei nativi. Questa condizione, che si fece sempre più rara e anche normativamente impraticabile, alla lunga si rivelò costosa per i mercanti che preferirono decisamente la schiavitù di colore, «il fattore decisivo fu che lo schiavo negro costava meno. La somma necessaria ad acquistare il lavoro di dieci anni del servo bianco bastava a comprare un negro per tutta la vita» (9).

Proprio il prossimo mese di ottobre, in Francia si annuncia un seminario su «Nuove direzioni nello studio della schiavitù e del capitalismo» (10), precisando che «questo seminario avanzerà la tendenza riunendo studiosi per discutere il nuovo lavoro nella storia atlantica sulle storie intrecciate di schiavitù e capitalismo: come il commercio atlantico dello schiavo, il sistema della piantagione e salario emergente di lavoro combinati per creare nuove categorie di sesso, razza, classe e un nuovo sistema economico del potere globale». Per quanto riguarda la Francia, Il Dizionario critico della Rivoluzione francese (François Furet e Mona Ozouf) per il bicentenario, autentico repertorio autocelebrativo della cultura politica liberale, non ha voce dedicata al colonialismo o alla schiavitù, e alla prima rivolta contro lo schiavismo, quella dei «giacobini neri» di Toussaint Louverture, che portò Santo Domingo (ora Haiti) nelle Antille francesi dopo una lotta di 12 anni, alla dichiarazione d’indipendenza di Haiti, nel 1803, primo esempio storico di rivolta contro la schiavitù a conoscere un esito positivo, scacco omesso dagli storici liberali (perché dimostra che ogni lotta alla fine paga) ma indelebile, degli eserciti nazionali di fronte a una moltitudine di schiavi (11). La colonia più fiorente del mondo, orgoglio della Francia rivoluzionaria liberale che scriveva libertà, uguaglianza e fraternità sulle sue bandiere, tranne che per i neri delle sue colonie, era l’invidia di ogni altra nazione imperialista, fornendo alla madrepatria i due terzi del suo commercio internazionale e rappresentava il massimo mercato della tratta europea degli schiavi.

Ancora il 28 giugno 1839, la goletta spagnola Amistad adibita al traffico di schiavi salpò da L'Avana per una consegna di routine di carico umano. In una notte senza luna, dopo quattro giorni di navigazione, gli africani prigionieri riuscirono a liberarsi, uccidendo il capitano e assumendo il controllo della nave. Cercando di navigare verso un porto sicuro, furono tuttavia catturati dalla US Navy e gettati in carcere nel Connecticut. La loro battaglia legale per la libertà alla fine approdò alla Corte Suprema, dove la causa degli schiavi ribelli fu assunta dall'ex presidente John Quincy Adams. In quella sentenza, storica, essi furono liberati e poi tornarono in Africa. La ribellione è diventata uno degli eventi più famosi della storia della schiavitù americana, celebrata come un trionfo del sistema giuridico liberale della democrazia americana in film e libri, che ad una considerazione più attenta riflettono insieme la prospettiva dell’élite dei giudici, politici e abolizionisti coinvolti nel caso. 

Nel racconto potente e molto originale, poi trasferito in film, Marcus Rediker rivendica la ribellione per i suoi veri sostenitori: i ribelli africani che hanno rischiato la morte per rivendicare una quota per la libertà. Utilizzando prove recentemente scoperte, Rediker ristruttura la storia per mostrare come un piccolo gruppo di uomini coraggiosi combatterono e vinsero una battaglia epica contro schiavisti spagnoli e americani e i loro governi. Egli risale in Africa per trovare le radici dei ribelli, racconta il loro catastrofico viaggio transatlantico, e snoda una storia carceraria di grande dramma ed emozione. Dotato di ritratti disegnati vividamente degli africani, i loro rapitori, e i loro alleati abolizionisti, mostra come i ribelli catturarono l’immaginazione popolare e contribuirono a ispirare e costruire un movimento facente parte di una grande lotta globale tra schiavitù e libertà. Le azioni a bordo della Amistad quella notte di luglio e nei giorni e nei mesi seguenti furono eventi cruciali della storia americana e atlantica, ma non per le ragioni che abbiamo sempre pensato. Il successo della rivolta Amistad cambiò la natura stessa della lotta contro la schiavitù, mostrando come un pugno coeso di africani auto-emancipatisi guidarono il loro corso verso la libertà, aprendo una via da seguire per milioni (12). 

Questa mentalità liberale, pertanto, operò negli stessi anni contro l’Ancien Régime assolutista francese e trovò la sua espressione più radicale nella Costituzione del 1793, data importante come si vede. Nel far ciò gli alfieri della liberté francesi incapparono essi pure nella contraddizione di cui sopra, perché fu proprio in quella circostanza che la borghesia prese atto e sancì una profonda discrasia tra l’uomo come totalità e la società come sommatoria di individui ridotti a strumenti usa e getta, una «società» lontana dalla originaria comunità naturale umana, essenzialmente atomizzata, che ha perduto il legame stretto tra l’attività spirituale e la sua base sensibile materiale, tra gli uomini e il loro ambiente in perfetta organicità. Da allora, per la precisione dall’epoca che si rispecchia nelle teorie economiche che passano dalla fisiocrazia al mercantilismo e a seguire, tutti i liberali di questo mondo, in tutte le varianti storiche e nazionali, daranno per scontata, come intangibile e «naturale», l’esistenza di quell’«uomo» che essi stessi sono e sono diventati, ossia quell’uomo alienato, deprivato della costitutiva naturale socialità comunitaria, atomizzato come «individuo» in una società civile, nella quale sarà titolare di diritti solo più come cittadino borghese e non come ente generico, per decadere infine o in quella noia che gli scrittori chiamano il male di vivere o nella generale regressione sociale conseguente all’auto cannibalizzazione sociale determinata dall’immane bolla di capitale fittizio, generata dall’accumulazione capitalista. È dunque proprio in questa concezione dell’individuo che si confonde con l’umanità nella sua generalità che risiede la contraddizione che Marx rilevava nella concezione hegeliana sia dello Stato che dell’individuo:

Hegel concepisce gli affari e l’attività dello Stato in una maniera in se astratta e oppone ad esso l’individualità particolare, ma dimentica che tanto l’individualità particolare quanto gli affari e l’attività dello Stato, costituiscono funzioni umane, dimentica che l’essenza dell’uomo, in quanto individuo, non è la sua natura fisica, considerata in sé, ma la sua qualità sociale e che gli affari dello Stato non sono altro che modi di esistenza e d’azione delle qualità sociali degli uomini (13).

Non a caso, l’esordio di quella Costituzione del 1793, poi divenuta modello per tutte le costituzioni europee, si fondava sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Nel linguaggio dell’epoca, l’uomo era l’uomo così come era allora, vivente nell’unica società civile esistente, anche se considerata come naturale e immutabile, come «individuo egoista», separato e illusoriamente indipendente dall’altro uomo e dalla comunità materiale degli altri uomini (la Gemeinwesen). 

Nell’art. 2, l’essere umano consisteva in un complesso di diritti definiti imprescrivibili: «l’uguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà». Ma ve li immaginate dei pargoletti nati già titolari di diritti, col fastidioso fardello non del sangue blu, ma di immense proprietà che non conosceranno mai, se non nel loro equivalente monetario, nemmeno fino alla fine dei loro giorni?

L’art. 6 fissava la «libertà» come «il potere che appartiene all’uomo di fare tutto quello che non nuoce ai diritti degli altri». Ovviamente, questa formulazione negli inconfondibili toni solenni dello stile giusnaturalista, proprio nel momento in cui descrive un uomo, immaginato titolare di potere/diritto alla stregua di un campo coltivato, subito registra dei limiti, dei confini non stabiliti da lui bensì…dalla legge! 

La contraddizione è rilevata da Marx (14), che commenta: «I limiti nei quali ciascuno può muoversi senza nocumento altrui sono fissati per mezzo della legge, così come il limite tra due campi viene stabilito per mezzo di un cippo»; e più oltre: «il diritto dell’uomo alla libertà non si basa sull’unione dell’uomo con l’uomo, ma al contrario sulla separazione dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale separazione, il diritto dell’individuo limitato, chiuso in sé stesso. 

L’applicazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà, è il diritto dell’uomo alla proprietà privata», così come sancita nell’art. 16: «Il diritto di proprietà è il diritto che appartiene a tutti i cittadini di godere e di disporre a loro piacimento dei loro beni, dei loro redditi, del frutto del loro lavoro e della loro attività». Ma sorge subito il quesito: come si fa a «disporre a piacimento di beni» se questi beni, redditi e lavoro, sono per me zero e per te cento e mille, in una condizione mondiale in cui circa l’1% della popolazione possiede la metà del reddito mondiale (15) e, per converso, oltre 3 miliardi di persone, quasi metà della popolazione mondiale, vive con meno di 2$ al giorno (16)? 

Che razza di uguaglianza è questa? E che genere di libertà è quella che consente che circa 140 Paesi al mondo abbiano un PIL annuo inferiore alla ricchezza di un solo individuo, Bill Gates (un patrimonio netto calcolato di 50 miliardollari)? «Chi se ne frega!» dirà l’individuo parcellizzato liberale im-moderato! 

Come succede, in parole povere, che questo diritto, di cui tutti «ugualmente» fruiamo, sancisce un paradosso, quello della più estrema disparità sociale? Infatti, l’Art.3 definisce questo paradosso dell’uguaglianza, che «consiste nel fatto che la legge è la stessa per tutti, sia che essa protegga, sia che punisca». Il paradosso è così tradotto nel motto visibile nei tribunali: «La legge è uguale per tutti!» Lo spiega ancora una volta Marx: «il diritto dell’uomo alla proprietà privata, è il diritto di godere della propria fortuna e di disporne a suo piacimento, senza riguardo agli altri uomini, indipendentemente dalla società: è il diritto dell’interesse personale. 

Quella libertà individuale, così come la sua messa in pratica, costituisce la base della società civile. Essa fa sì che ogni uomo trovi nell’altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà» (17). In altra occasione (18), osservavo sul liberismo economico: «L’economia politica presuppone la società edificata sulla base dell’interesse privato: l’arricchimento e godimento privato dovrebbe portare la felicità generale. Paradossalmente, poi, economisti come A. Smith rilevano che «una società non è felice dove la maggioranza soffre, e questa è la norma. “Bisogna concludere – secondo Marx – che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica”» (19). 

È così che l’ossessione della proprietà privata ha ancora un nome di un’altra ossessione: la sicurezza, che, dal versante di una borghesia piccola e particolarmente precarizzata in periodi di crisi, diventa la divinità per eccellenza.

In un contesto del genere, in cui i diritti in realtà sono confini invalicabili, divieti e negazioni, talvolta perdite e volubilità anziché affermazioni e acquisizioni, ben si comprende il diritto alla sicurezza, ossia la «protezione data dalla società a ciascuno dei suoi membri per la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e delle sue proprietà» (art. 8). Ecco come una società come quella che si palesa in una rivoluzione, quella francese, dimostra ancor più paradossalmente la propria natura profondamente conservatrice, come concludeva Tocqueville, tale che «la sicurezza è il più alto concetto sociale della società civile, il concetto di polizia a partire dal quale l’intera società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti, della sue proprietà… Con il concetto di sicurezza la società civile non si eleva oltre il suo egoismo. La sicurezza, è piuttosto l’assicurazione del suo egoismo» (20).

In definitiva, il liberale sa perfettamente che quella sommatoria di cittadini atomizzati non costituisce affatto una «comunità» politica, nemmeno nel senso gentilizio della pòlis, proprio perché alla base del cittadino non c’è l’uomo vero propriamente detto, ma lo striminzito borghese (nel senso appunto sociologico).

Non costituisce neppure una comunità in senso sociale, di solidarietà economico-sociale, nemmeno limitatamente alla propria classe, quella borghese. L’approdo del homo oeconomicus individualista borghese è una reale guerra di tutti contro tutti, nella logica hobbesiana dell’homo homini lupus, a malapena mitigata dalla legislazione garantista e securitaria, anche essa però, come si è visto, impotente di fronte alla prassi corrente che vede nella comune e «libera» competizione sempre il pesce grosso mangiarsi il pesce piccolo. I borghesi, individualisti, egoisti e, ahi loro!, «liberali», interromperanno la loro libera competizione e le guerre intestine unicamente per schiacciare le classi sottomesse, per seguitare ad approvvigionarsi della linfa vitale del lavoro vivo di quelle classi, per poi riprendere le consuete lotte per spartirsi quella linfa vitale.

(per cura dell’ Associazione Culturale PonSinMor, Dante Lepore)

Note
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(1) A. CORNU, Karl Marx e il pensiero moderno, Einaudi, Torino 1949, pp. 15 e sgg.

(2) A. DE TOCQUEVILLE, Scritti, note, discorsi politici, a cura di U. COLDAGELLI, Bollati-Boringhieri, Torino, 1994, p. 13.

(3) A. CORNU, Karl Marx e il pensiero moderno, cit., p. 27.

(4) Così ricorda ROBERT DAHL, Quanto è democratica la Costituzione americana?, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 13.

(5) Citato in L. CANFORA, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 55-56.

(6) Cfr. The Underground Railroad in http://www.pbs.org/wgbh/aia/part4/4p2944.html


(8) Essai sur l’inégalité des races humaines, 1853-54.

(9) Cfr. ERIC WILLIAMS, Capitalismo e schiavitù, trad. it. di L. TREVISANI, Laterza, Bari 1971, passim.


(11) Sulla rivolta dei giacobini neri cfr. il bel libro di CRL JAMES, recensione in

(12) Cfr.

(13) Marx-Engels Gesamtausgabe (Mega), I (I), p. 424, trad. in A. CORNU, op. cit. 147.

(14) KARL MARK, La questione ebraica, in MARX-ENGELS, Opere complete, Vol. III, Ed. Riuniti, Roma, 1976, pp.158-189.



(17) KARL MARK, La questione ebraica cit.

(18) DANTE LEPORE, recensione all’antologia di M. MUSTO, KARL MARX, L’alienazione, a cura di MARCELLO MUSTO, Donzelli ed., Roma, 2010, ora nel mio Gemeinwesen…, Ponsinmor, 2001.

(19) DANTE LEPORE, Karl Marx. Dialettica e alienazione, ora in Gemeinwesen o Gemeinshaft? Decadenza del capitalismo e regressione sociale, PonSinMor, Torino 2011, pp. 73 e sgg.

(20) KARL MARX, La questione ebraica cit.
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