lunes, 4 de julio de 2016

Da Prato al Bangladesh… di classe (Di Dante Lepore)

Dante Lepore, PonSinMor, 03/07/2016

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Si piange per un pugno imprenditori del «Made in Bangladesh» uccisi, ma non si fa parola sullo stillicidio di migliaia di schiavi e bambini che muoiono in quel genere di fabbriche.

Dopo la rivolta della «comunità cinese» di Prato, ecco, come per un fatale contrappasso, la strage di imprenditori tessili italiani a Dhaka, capitale del «Made in Bangladesh»! Prato è centro tradizionale dell’industria tessile «Made in Italy», passato in larga parte alla rampante imprenditoria cinese, e dove già un disastroso incendio mortifero, avvenuto lo stesso anno 2013 di quello del Raza Plana in Bangladesh, anch’esso dovuto all’assenza di sicurezza a salvaguardia degli schiavi cinesi che lavoravano e dormivano nei loculi del soppalco di una delle fabbriche-dormitorio del Macrolotto-1, dove se ne contavano almeno 2000, la quasi metà delle 5000 fabbriche «orientali», cosiddette dalla camera di commercio, e addette all’abbigliamento.

La sarabanda mediatica non fa parola di ciò che succede realmente dietro le quinte di quella che è ormai diventata una semplice questione di ordine pubblico e, per il fisco, roba da tassare allegramente. Per gli schiavi che ci crepano… chi se ne frega! Stessa pantomima nella vicenda della strage all’aeroporto di Dhaka: chi se ne frega degli schiavi sacrificati alla dinamica di un PIL del +6% all’anno, mentre in Italia si viaggia a zero! Infatti, nell’aprile 2013, un incendio nel palazzo di otto piani, il Raza Plana, provocò 1100 morti e ancora più feriti. Quello del Raza Plana è soltanto uno dei più disastrosi della serie, preceduto da un altro del novembre 2012 nella fabbrica Tazreen Fashions, dintorni di Dhaka, in cui perirono almeno 112 persone. Subito dopo il disastro del Raza Plana, in ottobre, un altro incendio causava la morte di nove persone e il ferimento di una cinquantina, in un’altra fabbrica tessile stavolta nel Bangladesh centrale. Secondo l’International Labor Rights Forum, più di 1800 persone sono morte a causa di incendi e crolli di fabbriche d’abbigliamento in Bangladesh dal 2005 al 2013. Da allora nessuno vi ha fatto più niente per superare questa folle condizione di lavoro. Anzi, nonostante ciò, negli ultimi anni molte produzioni tessili sono state delocalizzate dalla Cina, dove un operaio percepiva, sempre nel 2013, circa 200 € al mese, verso la Cambogia, dove si andava sui 46 €, e per l’appunto in Bangladesh che diventa il terzo produttore tessile al mondo.

Al Raza Plana avevano sede varie fabbriche tessili, i cui dipendenti lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza, producevano capi d’abbigliamento per conto di multinazionali occidentali, tra cui Benetton, che negò la sua relazione al disastro, smentita però miseramente perché tra le macerie e i morti furono trovate magliette col memorabile marchio «United Colors of Benetton» e bolle d’ordine. Son cose note ormai, specie all’imprenditoria rampante, che vi si lavora tutti i giorni dall’alba al tramonto. I bambini di età compresa tra i 10 e i 14 anni costretti a lavorare in Bangladesh sono circa 1 milione secondo l’UNICEF, ma il numero, in realtà, sarebbe molto più alto, stante il fatto che il carattere nascosto del lavoro schiavile è una regola cinica e discreta in tutto il mondo, anche dove ipocritamente imperversa il legalitarismo, più sbandierato che attuato, come in Occidente, specialmente in Italia dove si escogitano leggi contro l’induzione alla schiavitù e si condanna il caporalato, mentre questi fenomeni crescono e si estendono a tutte le filiere dell’agricoltura, dell’industria e dei trasporti.

Il governo del Bangladesh si profonde da sempre come tutti i governi di questi paesi cosiddetti poveri o emergenti, ad attrarre capitali dai paesi capitalisti, con ogni genere di incentivi ed esenzioni fiscali, non ingerenze sindacali e chiudendo anche due occhi sulle condizioni di lavoro e sulle paghe da fame. Persino gli accordi in sede ONU sulla sicurezza nei luoghi di lavoro restano declamazioni trascendentali e senza pratica vincolante e sanzionatoria come quelli di Ruggie e Principi Guida dell’ONU su Business e Diritti Umani.

In quel 2013, il Bangladesh aveva una popolazione di 156, 6 milioni di ab, di cui 15 milioni solo nella capitale Dhaka, e oggi siamo a circa 169 milioni di abitanti in un territorio stretto tra l’India e il Pakistan occidentale, da cui si è reso indipendente nel 1971, e con una densità abitativa tra le più alte al mondo, poggiando la sua economia neocoloniale, per l’80%, sull’export di tutta la filiera dell’abbigliamento: in soldoni, per le 5000 aziende ufficiali, un bel giro d’affari di 18 miliardollari annui, che nel 2020 si prevede che triplichi! Terzo paese al mondo per la produzione tessile dopo Cina e Vietnam, il Bangladesh tesse ed esporta abbigliamento in forma «terzista», per il capitale dei grandi marchi come Gap, Primark, Walmart, American Apparel e altri, per un valore annuo complessivo di 14 miliardi di euro nel 2013. Eppure quasi metà della popolazione vive al di sotto della soglia della povertà, con meno di 1,25 $ al giorno. È esattamente questa condizione che induce molta classe operaia femminile e minorenne ad accettare («liberamente»?) questa coercizione al lavoro schiavista lavorando in fabbriche a rischio e con paghe che non vincono la fame ma offrono enormi possibilità di arricchimento a imprenditori rampanti della bergamasca e alle multinazionali.

L’export, che nel 2013 per il 60% era diretto ai mercati dell’Unione Europea, darebbe lavoro, ufficialmente, almeno a tre milioni di persone, ma in realtà molte fabbriche, soprattutto di jeans, sono clandestine, come gli schiavi che ci lavorano, per l’80% donne. La cintura industriale di Dhaka, 40km a nord-est, è in continua espansione, trattandosi di una «zona alta», al riparo dalle frequenti alluvioni. In zona, fra l’altro è situata la località Zirani dove sorge un Centro Gesù Lavoratore, attivato da missionari del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) e suore dell’Immacolata, in una zona di 30kmq dove sorgono una quarantina di aziende, quasi tutte tessili, che forniscono prodotti destinati quasi totalmente all’esportazione: in alcune, ci lavorano dai 2ai 5 mila dipendenti, maggiormente donne, e migliaia sono i bambini, costretti a cucire jeans per 18 ore, a 20 pence (poco più di 28 centesimi di €!) al giorno. Soltanto dopo dure lotte, nel 2010, lo stipendio minimo è stato aumentato da 19€ a 35€ al mese, o, secondo altre fonti, in $, senza tuttavia raggiungere i 37$ al mese, contro i 150 del Made in China e i 100 di Indonesia e Messico.

La ragione del fatto che tanto capitale made in Italy (come Benetton e probabilmente gli stessi imprenditori coinvolti nella strage di Dhaka) vada ad investire in Bangladesh è proprio l’esigenza di ossigenare di valore reale l’enorme bolla di trilioni di capitale fittizio che si aggira ormai dalla crisi del 2007-2008 su tutti i continenti, esigenza che non si soddisfa più col prelievo di plusvalore relativo dato dall’innovazione tecnologica elevando la composizione organica del capitale e il saggio di profitto, ma con l’enorme convenienza sul prezzo infimo e schiavo della forza-lavoro. Gli italiani, come gli altri imprenditori, anche di più grosso calibro, non vanno in India, Pakistan e Bangladesh per i costumi e per la bella miseria del paesaggio. Molti italiani vanno a farsi imprenditori in Bangladesh nonostante anzi proprio per il fatto che è tra i paesi più poveri del mondo. Ma cosa importa? Basta poco  a comprare questo genere di schiavi da cui succhiare lavoro a gogò, dove la vita che vale nulla. Qui siamo nel cuore miserabile del supersfruttamento schiavista della specie umana più debole, quella di donne e bambini, e dove si tocca con mano a quanto poco servano le continue campagne di informazione, tanto meno le missionarie di santa madre chiesa, da sempre onnipresenti. Qui è l’inferno! Altro che paradiso della carità! Un giovane neo-assunto vi riceve una paga di circa 2mila taka al mese (20 €), per sei giorni di lavoro a settimana. Per risparmiare, gli operai vivono in baracche vicinissime all’azienda, con servizi igienici comuni ogni 50-60 persone e una cucina a gas utilizzata a turno. Di fatto, molti si ritrovano a passare la vita in fabbrica, in un ambiente profondamente degradato dal punto di vista sia sociale che ambientale. Italiani, c’è posto per i vostri denari!

Fonti:

http://www.lavocedinewyork.com/onu/2013/10/20/bangladesh-dove-di-lavoro-si-continua-a-morire/

http://www.terranuova.it/Consumo-critico/I-piccoli-schiavi-del-Bangladesh

http://www.lastampa.it/2014/04/30/vaticaninsider/ita/nel-mondo/bangladesh-alla-periferia-di-dhaka-unoasi-per-i-nuovi-schiavi-FqOH5IDc5e9oseel449U5K/pagina.html

(a cura di PonSinMor, Dante Lepore)
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