Dante Lepore, Associazione Culturale PonSinMor, Agosto 2010
Recensione a: KARL MARX, L’alienazione, a cura di Marcello Musto, Donzelli ed., Roma, 2010. pp. 125, € 7,00
Vedasi altri lavori di Dante Lepore
Vedasi altri lavori di Dante Lepore
Da alcuni anni si riscontra un interesse crescente per le opere di Karl Marx, che ricompaiono nelle librerie di tutto il mondo, accompagnate da una fioritura di studi su questo o quell’aspetto del grande rivoluzionario di Treviri, il quale vede finalmente prospettarsi l’edizione critica della sua opera, mai data sistematicamente alla stampa e lasciata in gran parte, quando era in vita, «alla critica roditrice dei topi».
Questa antologia dell’editore Donzelli ha il pregio di essere curata da uno dei massimi studiosi di Marx, Marcello Musto, impegnato nell’edizione critica integrale delle sue opere. Essa è veramente «essenziale» (come indica il titolo della collana in cui è inserita), divulgativa e agile, ma al contempo rigorosa e aderente all’intero percorso della riflessione marxiana dal 1844 fino alla sua morte.
Non è un caso che il tema dell’antologia sia quello dell’alienazione, che caratterizzò in misura rilevante le discussioni dalla metà del secolo scorso e, all’interno di esse, sulla specifica concezione di Marx che tante polemiche ha acceso e suggestioni persino pindariche ha provocato. Quel che raramente è emerso dalle discussioni a seguito della pubblicazione, nel 1932, dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e dell’ Ideologia Tedesca, e, dal 1939 al 1941, dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (i «Grundrisse») del 1857-58, è che l’alienazione non è un argomento accanto ad altri in Marx, ma è la formulazione dei risultati di una riflessione che prende l’avvio dalla polemica nei confronti del pensiero speculativo di Hegel, prima, e dell’economia politica, poi, e che accompagnerà pensiero, azione politica e scritti successivi di Marx fino alla fine della sua esistenza. Si tratta di un lato del suo approdo materialista che, visto nella sua elaborazione più «matura», si delinea progressivamente come il suo filo conduttore dialettico e storico. Nell’ambito di questo percorso a spirale, piuttosto che le «svolte», che pure si presentano come rilevanti se si considera i campi arati dalla critica di Marx, da quello filosofico a quello dell’economia politica a quello della pratica politica a quello della storiografia, occorrerebbe invece considerare le varie fasi, in cui si manifestano tali svolte, come sedimentazioni che rispecchiano momenti e contenuti dialettici, così come è riscontrabile anche nell’apparente frammentarietà dei suoi scritti e delle pubblicazioni. I testi dell’antologia documentano, pur nella loro frammentarietà apparente, questo percorso nel suo contenuto di merito, opportunamente definito «non lineare» e «contrassegnato da punti di svolta» da Musto, che partirebbe dai Manoscritti del 1844 fino al 1881.
Ma anche questo non è un «cominciamento» assoluto. Prima dei Manoscritti, Marx era impegnato in un confronto serrato con la filosofia hegeliana e il suo lavoro di scavo dovette per forza di cose concentrarsi sul versante della dialettica. Il suo obbiettivo, in una lunga lettera al padre del novembre 1837, è «cercare nella realtà stessa l’Idea», un’idea che era stata posta invece al di fuori e al di sopra del reale. Siamo già, come si vede, nella critica del congegno caratterizzante l’alienazione nella peculiare formulazione speculativa di Hegel come «estraneazione» (Entfremdung). Cammin facendo nel suo percorso «critico», Marx scoprirà presto (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e La questione ebraica) il congegno dell’«inversione» soggetto/predicato alla base della «speculazione» hegeliana e ne effettuerà a sua volta il «rovesciamento». Marx scopre che Hegel, in modo «speculativo», «enuncia il fatto come gesta dell’Idea», attribuisce cioè ai fatti qualcosa che è loro «estranea». I fatti, invece di essere presi per quel che sono, come se stessi, perdono il proprio significato. Nella speculazione, insomma, «il producente (diventa) il prodotto del suo prodotto»:
«Hegel – spiega Marx – dà un’esistenza indipendente ai predicati, agli obbietti, ma astraendoli dal loro soggetto, che è realmente indipendente; dopo, il reale soggetto appare come risultato loro, mentre, invece, bisogna partire dal reale soggetto e considerare il suo obbiettivarsi. La mistica sostanza diventa, dunque, il reale soggetto e il reale soggetto appare come qualcosa d’altro, come un momento della mistica sostanza. Proprio in quanto Hegel prende le mosse dai predicati della determinazione generale, invece che dall’ente reale (ύποκείμενον, supporto, soggetto) e ci ha da essere tuttavia un supporto di queste determinazioni, la mistica idea diventa questo supporto. È il dualismo per cui Hegel non considera l’universale come l’effettiva essenza del reale-finito, cioè dell’esistente e determinato, ossia non considera l’ente reale come il vero soggetto dell’infinito» (Critica…, pp. 34-35)
È la stessa forte critica dell’inversione soggetto/predicato svolta da L. Feuerbach (non è la religione che fa l’uomo ma è l’uomo che fa la religione). Religione, teologia e filosofia, sono i versanti di un unico processo di astrazione, scissione, inversione, estraneazione, obbiettivazione, alienazione, che deve produrre dialetticamente un «rovesciamento» che sarà poi precisato come passaggio dalla «cosa della logica» alla «logica della cosa». Nel primo fascicolo degli «Annali franco-tedeschi», l’Introduzione alla critica della filosofia hegeliana del diritto pone programmaticamente lo smascheramento filosofico dell’alienazione «profana», dopo il già acquisito smascheramento dell’alienazione religiosa. Nei Manoscritti del 1844, dopo l’esperienza parigina e la lettura dei Lineamenti di una critica dell’economia politica di Engels, Marx indica nell’alienazione economica profana la forma reale, fondamentale, di alienazione rispetto alla quale sia l’alienazione politica che quella morale e quella religiosa erano da considerare derivate, precisando nel secondo capitolo del terzo manoscritto che non si può giungere ad una critica dell’economia politica senza una critica della dialettica e della filosofia speculativa di Hegel (1).
Anche l’economia politica, che pur pretende di essere «scienza», proprio quando mostra, senza alcuna ipocrisia, gli aspetti più disumanizzanti dell’ordinamento economico-sociale capitalistico, si arresta senza giungere a conclusioni scientifiche relative alla necessità di un rovesciamento pratico di tale condizione.
L’economia politica presuppone la società edificata sulla base dell’interesse privato: l’arricchimento e godimento privato dovrebbe portare la felicità generale. Paradossalmente, poi, economisti come A. Smith rilevano che «una società non è felice dove la maggioranza soffre», e questa è la norma. «Bisogna concludere – secondo Marx – che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica».
Ancor più paradossalmente, «l’economista ci dice che originariamente e teoricamente l’intero prodotto del lavoro appartiene all’operaio», ma che poi «di fatto giunge all’operaio la parte più piccola e assolutamente indispensabile del prodotto». «Senza che l’economista lo sappia» – sottolinea Marx – è il lavoro stesso, nel suo scopo di semplice accrescimento della ricchezza, che risulta invece dannoso e generatore di miseria proprio per chi lavora. E questo immiserimento della condizione del lavoratore avviene sia in periodi di crisi e declino, sia in periodi di sviluppo. Dunque, la miseria operaia è indissolubilmente legata alla «natura» stessa del lavoro nelle specifiche condizioni del capitalismo.
Nell’economia politica, all’operaio come uomo si sostituisce un’astrazione monca, quella dell’operaio ridotto a macchina da lavoro, a bestia da soma, ridotto, cioè, ai più elementari bisogni vitali; egli deve quindi guadagnare quel tanto che basta per poter lavorare e, reciprocamente, lo stesso lavoro si riduce a quell’astrazione che ne fa una pura attività per sopravvivere.
Ecco come, via via, si delinea una condizione di alienazione del lavoro umano, la quale si ripercuote sulla vita umana in generale, e sulla quale si sono cimentati, nella seconda metà del XX secolo, gli studiosi delle più svariate discipline che vanno sotto il nome di scienze umane e sociali, fino alla psicoanalisi. Marx parte dai fatti descritti dall’economia politica stessa per esprimerne il «concetto» e vedere come il concetto trova riscontro a sua volta nella realtà:
«Certamente abbiamo acquisito il concetto di lavoro alienato (di vita alienata) traendolo dall’economia politica come risultato del movimento della proprietà privata. Ma con un’analisi di questo concetto si mostra che, anche se la proprietà privata appare come il fondamento, la causa del lavoro alienato, essa ne è piuttosto la conseguenza; allo stesso modo che gli dei non sono la causa, ma l’effetto dell’umano vaneggiamento. Successivamente questo rapporto si converte in azione reciproca.»
Il «fatto» che Marx rileva è perciò che
«L’operaio è tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione… La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose».
E questo fatto della realtà empiricamente constatabile si esprime appunto nel «concetto» di «lavoro alienato» o «alienazione del lavoro» ed esso, a sua volta, si esprime in questi termini:
«l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce».
L’alienazione configura così un mondo «rovesciato». Come Hegel, gli economisti descrivono questo mondo non come un mondo storicamente derivato e determinato ma come il mondo in astratto. Occorre notare, se ce ne fosse ancora bisogno, che Marx ci arriva sempre con lo strumento della dialettica, e non dovrebbe sfuggire che qui i principi della dialettica agiscono ormai in sordina, nel sottofondo del discorso empirico di Marx e soprattutto sono operanti due principi meno usati nella precedente critica esplicita della dialettica hegeliana, ossia quello dell’azione reciproca e della conversione della quantità in qualità e viceversa (si noti: «tanto più povero, quanto maggiore è la ricchezza che produce»!). Non è una svolta: Marx ha acquisito i ferri del mestiere e li usa!
Il lavoro è sempre e comunque «oggettivazione», il suo prodotto è «il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro». Il lavoro si realizza come oggettivazione. Ma, nei fatti, ossia nelle condizioni dell’economia ordinata secondo la proprietà privata, questa realizzazione-oggettivazione si manifesta come «annullamento dell’operaio», «perdita dell’oggetto» che diventa così «estraneo». La «proprietà» o, meglio l’appropriazione privata, si manifesta come «estraneazione», «alienazione», «espropriazione». «Il capitalista stesso – aggiungerà Marx nel cap. VI inedito del I libro del Capitale – è detentore di potere solo in quanto personificazione del capitale (per cui, nella contabilità italiana, appare sempre come figura doppia, per es. come debitore del suo proprio capitale)» (p.74). Per non travisare le cose, è opportuno precisare che Marx non intende la «proprietà privata» come fatto giuridico ma come fatto economico, come appropriazione privata del prodotto sociale, come capitale, e quest’ultimo è assolutamente indipendente rispetto alle forme di Stato e di governo. Molti equivoci sono sorti dalla contrapposizione tra proprietà privata come forma giuridica e proprietà statale: entrambe, nelle condizioni capitalistiche di appropriazione privata, lasciano inalterate le condizioni di alienazione del lavoro.
L’oggettivazione del lavoro non va però confusa con l’alienazione. Ogni lavoro si esplica in un oggetto, ma solo in determinate condizioni storiche l’oggetto in cui si esplica il lavoro appare come estraneo al lavoro, perduto. È solo in determinate condizioni storiche che il lavoro perviene ad un asservimento dell’uomo da parte dell’oggetto. L’alienazione, lungi dall’identificarsi con l’oggettivazione del lavoro, non è che un caso particolare di oggettivazione.
Ricostruito così il nesso necessario tra condizione di lavoro nell’ambito della proprietà privata di tali condizioni e lavoro alienato, emergono come conseguenze implicite, come «determinazioni», altri nessi che altrimenti apparirebbero accidentali. La stessa morte fisica come forma estrema di alienazione, presentata come «disgrazia» o «incidente» sul lavoro e non come condizione di lavoro di per sé mortifera, trova il suo posto come conseguenza, come «presupposto» necessario e non accidentale, evidente nelle statistiche dei morti sul lavoro, come fatto implicito nel lavoro alienato.
«Quanto più l’operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli crea davanti a sé, tanto più povero diventa egli stesso e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene in proprio».
Marx può quindi procedere nell’«analisi» del lavoro alienato, come vero e proprio sviluppo, pratico e non astratto, del suo concetto, come fenomenologia del lavoro alienato, sottoposta allo stesso rigore deduttivo della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Ora, il lavoro è innanzi tutto rapporto con la natura, con gli oggetti della natura, di cui il lavoro si appropria e si sostiene. Si ha che
«quanto più l’operaio produce, tanto meno ha da consumare; quanto maggior valore produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede».
L’economia politica è pronta a riconoscere che «il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose», ossia ad assumere come un fatto, e elevare a legge, il rapporto che corre tra lui e gli oggetti della produzione, omettendo però il «fatto» determinante che questi oggetti sono prodotti del lavoratore. Inoltre, se il prodotto «non è altro che il résumé dell’attività, della produzione» e, «se il prodotto del lavoro è l’alienazione, la produzione stessa deve essere alienazione attiva, alienazione dell’attività, l’attività dell’alienazione».
Dunque, non solo il prodotto del lavoro non appartiene al lavoratore, ma la stessa attività lavorativa non appartiene al suo essere e «l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé e si sente fuori di sé nel lavoro», un lavoro «forzato». Il lavoro «non è suo proprio, ma di un altro». L’operaio non è e non si sente «libero» nel lavoro che condiziona tutte le attività propriamente umane, ma solo nelle attività propriamente animali: mangiare, bere, procreare, le sole in cui è lasciato relativamente «libero».
L’alienazione finisce altresì per rendere all’uomo «estraneo il genere»: la vita individuale diventa semplice «mezzo di vita», di pura sopravvivenza, anziché essere indirizzata alla piena esplicazione del genere. All’uomo viene sottratta la natura, suo «corpo inorganico». Il lavoro estraniato «fa della vita dell’uomo come essere cosciente, come essere generico, un mezzo della sua esistenza fisica». La sua essenza (non intesa evidentemente in senso speculativo, scissa dal suo essere empirico) diventa un mezzo per la sua esistenza.
Ne deriva un’estraneazione «dell’uomo dall’uomo».
Se il prodotto del proprio lavoro è estraneo all’operaio, significa che appartiene ad altri, che non è né Dio, né la natura, ma un altro uomo. Non è Dio, perché è l’uomo che crea la religione. Non è la natura, perché questa è assoggettata col lavoro. Ma, come nella religione la rinuncia dell’uomo è mediata dal prete, nell’attività lavorativa non libera del lavoratore è sotto la coercizione esercitata da un altro uomo che non produce: «Come egli rende a sé estranea la propria attività, egli rende propria all’estraneo l’attività che non gli è propria».
Questo rapporto col capitalista, o con chiunque ne impersoni le funzioni di valorizzazione del capitale, sia il cittadino «privato» o lo Stato, altro non è che la «proprietà privata», ossia appunto un «fatto» economico: «il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria del lavoro alienato».
Dall’insieme interconnesso e dall’azione reciproca di tutte queste «condizioni» deriva il carattere provvisorio, ossia storicamente determinato, della condizione dell’alienazione e pertanto la necessità dell’emancipazione e del superamento. E deriva anche che è solo un’apparenza che il lavoro alienato sia l’effetto e il risultato «del movimento della proprietà privata», mentre nella realtà la proprietà privata è a sua volta un risultato e un effetto del movimento del lavoro alienato:
«Solo al vertice del suo svolgimento la proprietà privata rivela il suo segreto, vale a dire, anzitutto che essa è il prodotto del lavoro alienato, in secondo luogo che è il mezzo con cui il lavoro si aliena, è la realizzazione di questa alienazione».
I «processi» reali, per essere ri-compresi scientificamente, vanno «analizzati» dal loro punto di arrivo, non dal punto di partenza. E per quale via «arriva l’uomo ad alienare, ad estraniare il proprio lavoro? Come questa estraneazione è fondata sull’essenza dello svolgimento dell’uomo?».
Dunque, occorre partire dallo svolgimento, dal processo, dallo sviluppo umano, nel susseguirsi dei suoi momenti necessari fino al lavoro estraniato. L’economia politica deve diventare parte integrante dell’umanesimo. Le sue categorie (divisione del lavoro, scambio, concorrenza, capitale, denaro, ecc.) manifesteranno la loro «connessione essenziale» come momenti non astratti e accidentali di un unico processo che mette in luce il nesso «determinato» con il lavoro alienato e con la proprietà privata.
Si comprende così che il processo di soppressione del lavoro estraniato non può attuarsi senza la soppressione della proprietà privata, e l’emancipazione della società dalla proprietà privata non può attuarsi senza l’emancipazione degli operai che sono l’incarnazione del lavoro alienato. Ma la società è anch’essa scissa tra lavoro salariato e capitale. La soppressione dell’auto-estraneazione della società deve percorrere la stessa strada dell’auto-estraneazione, sono due aspetti dello stesso processo.
Ora, Proudhon vuole sopprimere il capitale, Fourier «il lavoro livellato e suddiviso», Saint Simon la disuguaglianza nelle condizioni degli operai: è evidente che in questo modo si vuol sopprimere solo alcuni aspetti reali della proprietà privata, ma lasciando vivere la proprietà privata. Né si sopprime la proprietà privata come pretende di fare, in Francia, il comunismo «rozzo», generalizzandola, cioè riducendola al «possesso fisico immediato», così come per la «comunanza delle donne». Si pretende che tutti gli uomini si riducano a livello degli operai e che la comunità, «in veste di capitalista generale», garantisca a tutti lo stesso livello di alienazione: la soppressione della proprietà della donna avviene assicurando a tutti i maschi la proprietà privata della femmina. Il comunismo «rozzo», in definitiva, non sopprime l’estraneazione dell’uomo ma solo la sua mancata generalizzazione e non vuole recuperare l’essenza dell’uomo ma generalizzare la sua alienazione. L’attività umana si avvilisce e depaupera nel «possesso delle cose», nell’estensione a tutti dell’alienazione, nella prostituzione comune della donna.
Solo il comunismo «positivo» si pone pertanto come «risoluzione della contesa tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’auto-affermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e il genere». Il processo reale dello sviluppo umano è lo sviluppo stesso del comunismo, è «il movimento che cambia lo stato di cose presente».
Con ciò, è ricostruito dialetticamente il ciclo processuale: nell’alienazione, l’uomo produce la propria separazione dall’altro uomo, nell’emancipazione produce la sua unione con l’uomo; nell’alienazione, l’altro uomo nega l’uomo, nell’emancipazione l’altro uomo produce a sua volta l’uomo. Si determina il carattere universale, sociale dell’uomo: «Come la società stessa produce l’uomo in quanto uomo, così l’uomo produce la società». E, negli Estratti dal libro di J. Mill, Elementi di economia politica, preparatori ai Manoscritti, «Gli uomini, realizzando la loro essenza, producono l’essenza comune umana, l’essenza sociale, che non è una potenza universale-astratta contrapposta al singolo individuo, ma è l’essenza di ciascun individuo, la sua propria attività, la sua propria vita, il suo proprio spirito, la sua propria ricchezza» (2). Il carattere sociale dell’individuo è sia all’origine che nel risultato del processo. Significa che l’attività «umana» è direttamente sociale. La società non si erge più estranea di fronte all’individuo. La «soppressione dell’alienazione» non è una «misura» proposta da Marx, ma un risultato della dialettica storica. Ecco l’immensa «novità» dell’approccio di Marx.
Se l’alienazione economica nel rapporto uomo-natura si esprime nel «godimento immediato, unilaterale» dell’oggetto e della natura, l’emancipazione porta invece allo sviluppo «onnilaterale» dell’uomo, al pieno godimento della natura da parte dell’uomo; il «senso del possesso e dell’avere qualche cosa» è solo «l’espressione sensibile» di un complesso più ampio di rapporti dell’uomo col mondo.
Se l’alienazione economica ha impoverito i sensi spirituali dell’uomo riducendoli al puro «senso dell’avere» (un oggetto è considerato «nostro» solo quando «è da noi immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, ecc.»), per contro, l’emancipazione apre il rapporto a tutte le prerogative umane. La natura e le cose non sono più estranee e nemiche ma sono l’esplicazione «delle forze essenziali dell’uomo». Occorre rendere «umani» i sensi dell’uomo, aprendoli «a tutta la ricchezza dell’essere umano e naturale». L’educazione dei cinque sensi nel lavoro come rapporto tra l’uomo e la natura è l’espressione di «tutta la storia del mondo fino ad oggi» (3).
La prospettiva di soppressione delle condizioni dell’alienazione si riverbera anche nelle scienze della natura e dell’uomo. La scienza «sensibile» o «naturale» è il culmine del processo di soppressione dell’alienazione: «La scienza naturale sussume sotto di sé la scienza dell’uomo» e «allora ci sarà una sola scienza», che è insieme «scienza umana della natura» e «scienza naturale dell’uomo» (4).
La soppressione reale delle condizioni dell’alienazione culmina con lo sviluppo concreto dell’uomo nella sua evoluzione reale e ideale, allorché cade la rappresentazione alienata dell’uomo, della natura e della loro vita come creazione divina e si afferma la consapevolezza che l’uomo e la sua vita sono il loro proprio risultato: l’uomo crea se stesso da se stesso (5), «è l’essere che fa se stesso», così come la natura «crea se stessa». La natura è «da sé» (6). L’uomo è debitore della sua esistenza biologica anche fisicamente all’uomo, nell’atto generativo sociale di due esseri umani, cioè dell’uomo umano sociale, e non nella condizione di alienazione, che considera la direzione del «cattivo infinito» secondo cui il padre rimanda al nonno e «via di seguito… sempre più indietro». Marx è decisivo su questo punto: chiedere «chi» abbia prodotto il primo uomo e la natura equivale a «fare astrazione dall’uomo e dalla natura», ponendoli come «non esistenti», eludendo la loro capacità auto-produttiva.
Ma anche il comunismo come soppressione dell’alienazione mediante la soppressione della proprietà privata («negazione della negazione») è certo affermazione, ma ancora condizionata dalla negazione da cui proviene. Considerato come «origine», dunque, esso è soppressione, negazione. Bisogna raggiungere la piena positività senza più legame col negativo. Il comunismo è un momento «necessario», ma negativo, ma non è «la meta dello svolgimento storico». La società pienamente umana, il «socialismo», non ha più bisogno della negazione:
«Il socialismo comincia dalla coscienza teoreticamente e praticamente sensibile dell’uomo e della natura nella loro essenzialità; esso è l’autocoscienza positiva dell’uomo cui si accompagna la vita reale come realtà positiva dell’uomo».
Nella condizione dell’«uomo socialista», da un lato è «praticamente improponibile il problema di un essere estraneo, di un essere superiore alla natura e all’uomo», dall’altro si ha «la prova evidente, irresistibile, della sua nascita mediante se stesso, del processo della sua origine» e che «tutta la così detta storia del mondo non è altro che la generazione dell’uomo mediante il lavoro umano, null’altro che il divenire della natura per l’uomo» (7).
Ma il superamento «positivo» della condizione di alienazione, dell’opposizione tra individuo e società, uomo e natura, soggetto e oggetto, non è «soltanto un compito teoretico», ma è condizionato dallo sviluppo della praxis, e dunque il socialismo si configura come ipotesi scientifica. La conoscenza come comprensione scientifica del reale non può separare la teoria dalla praxis trasformatrice, mentre nelle condizioni di alienazione la scienza si riduce a pura astrazione indeterminata, a pura contemplazione, al distacco tra «senso», spirito e pensiero. «La soluzione degli enigmi teorici è un compito della pratica ed è mediata praticamente» e, per converso, «la vera pratica è la condizione di una teoria reale e positiva».
Solo il «lavoro proprio dell’uomo» produrrà «il senso umano della natura e il senso naturale dell’uomo». Nella coscienza si può solo delineare idealmente il movimento di emancipazione dell’uomo, ed «è una coscienza che sorpassa tale movimento», essendo la coscienza già l’inizio di quel movimento storico, che però non può sostituirsi ad esso.
Nell’Ideologia Tedesca, attraverso la critica alla teoria dell’essenza di Feuerbach, che inchioda quest’ultimo a un atteggiamento di contemplazione della realtà anziché di trasformazione rivoluzionaria di essa, Marx si incammina, in quella che può apparire, ed è stata vista, come una «svolta», decisamente nella direzione della «concezione» materialistica della storia, dell’adesione diretta alla realtà come si manifesta empiricamente. Tutte le «determinazioni» della fase «critica» del pensiero speculativo diventano qui determinazioni materiali concrete. Non è più questione di essenze, sostanze, genere e specie, anche se intese materialisticamente, ma di «concezione delle cose come realmente sono e sono accadute». La scienza reale e positiva comincia dove «cessa la speculazione» e «ogni profondo pensiero filosofico si risolve in un fatto empirico». Non si ha più a che fare con nessi logici e concetti, ma con connessioni materiali, empiricamente verificabili, ad es. tra modo di produzione e relazioni sociali, tra società civile e Stato, tra modo di produzione e forme della coscienza, tra forze produttive e rapporti di produzione. Le relazioni tra fatti storico-empirici sono costituite da altrettanti fatti storico-empirici. Le acquisizioni della dialettica (totalità organica, processo, opposizione, negazione, contraddizione, ma anche azione reciproca, quantità e qualità) non sono «categorie» astratte, ma criteri di ordinamento del materiale empirico e storico. Le opposizioni e contraddizioni non sono astratte ma materiali e storiche.
Anche l’alienazione e l’estraneazione non servono più a inquadrare quel fenomeno generale per cui, dato il movimento estraniato della divisione del lavoro, «l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea che lo sovrasta, lo soggioga, invece di essere da lui dominata». Ora l’alienazione deve essere colta come un fatto determinato, empiricamente e storicamente, in una concatenazione:
«Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire». (p. 31)
E aggiunge che il termine «estraneazione» è adoperato solo «per usare un termine comprensibile ai filosofi», ma che si tratta di una estraneazione pratica che deve «rappresentare gli individui reali nel loro estraniamento reale e nelle condizioni empiriche di questo estraniamento» che va superato solo in base a condizioni pratiche che sottentrano ad un «grande incremento della forza produttiva per via del quale gli uomini passano da una condizione di esistenza «locale» alla condizione di esistenza regolata da relazioni universali.
Il comunismo non è un «ideale», un modello a cui conformare la realtà, non è «uno stato di cose che debba essere instaurato», ma è «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».
La spiegazione materialistica dell’alienazione è solo una rappresentazione dello svolgimento dell’azione reale e operante degli individui che genera strutture oggettive che condizionano la loro stessa vita e di cui non ci si può sbarazzare con la semplice volontà.
Questa ferrea, dura, brutale «necessità» delle «condizioni reali esistenti», che non può essere soppressa, eliminata, superata che dallo sviluppo delle condizioni reali stesse, è una necessità, al paragone della quale la necessità astratta con cui un concetto toglie via un altro o ne genera un altro è impalpabile e leggera, e manifesta l’impotenza in cui si è realmente nei rapporti reali.
I rapporti reali non sono creati dalla buona volontà, perché anzi la volontà, condizionata da tali rapporti, non è «libera» e non può nascere «prima che le condizioni siano sviluppate al punto di poterla produrre», e solo a quel punto essa entra a far parte del contesto dei rapporti reali operanti.
Dopo l’Ideologia Tedesca, Marx ha acquisito i principi e il metodo dialettico e la concezione materialistica che costituiscono la metodologia per l’azione pratica di soppressione scientificamente fondata dell’alienazione profana. L’ottica è ormai quella per cui «I filosofi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di trasformarlo», o, se si preferisce, si passa «dalle armi della critica alla critica delle armi». Chi insiste sulle «svolte» nel percorso marxiano non dovrebbe ignorare il rapporto dialettico con il quale Marx relaziona (e si rapporta egli stesso) la teoria con la pratica, la scienza e l’attività rivoluzionaria.
Segue infatti il periodo delle rivoluzioni democratiche borghesi in Europa e del ruolo del proletariato al loro interno, segnate dalle battaglie politiche e dalle opere storiche, e soprattutto dalla organizzazione della Lega dei Comunisti e relativo Manifesto. Il decennio successivo è quello in cui Marx riprende «dal principio» lo studio della critica dell’economia politica. Durante la controrivoluzione, questo «ritorno», più che una «svolta», è una ripresa e approfondimento del filo conduttore della dialettica e del materialismo storico in condizioni mutate. Questa fase di maturazione è documentata nell’antologia con brani importanti nelle tappe che dai «Grundrisse» riprendono la problematica dell’alienazione seguendola fino al III Libro del Capitale.
Il lungo brano dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica («Grundrisse») ri-portato nell’antologia occupa 40 pagine su 125, ed è impossibile analizzarlo nelle sue articolazioni in una recensione. Ci limitiamo ai punti salienti.
Innanzitutto, lo scopo dichiarato di Marx è ormai quello di trovare nella società borghese fondata sul valore di scambio quelle contraddizioni che costituiscono «altrettante mine per farla saltare» (p. 46):
«Se noi non trovassimo già occultate nella società, così com’è, le condizioni materiali di produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali per una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero altrettanti sforzi donchisciotteschi» (ivi).
È evidente la padronanza del metodo scientifico acquisito, nella più estesa e approfondita analisi del lavoro, del lavoro produttivo e improduttivo, del valore, della formazione del plusvalore, della cellula elementare della merce e del capitale e dei suoi movimenti, della formazione del mercato mondiale, delle crisi, del loro carattere ciclico, e delle condizioni della soppressione dell’alienazione.
Una prima forma di alienazione si ha quando il prodotto del lavoro accanto al valore d’uso assume un valore di scambio resosi autonomo e questo assume la forma di denaro che riassume a sua volta la forma sociale dei prodotti del lavoro, che tanto più si sviluppa, si distacca dai prodotti e si rende autonomo, quanto più avanza la divisione del lavoro. Si apre un «abisso» tra il prodotto in quanto tale e il prodotto in quanto valore di scambio:
«Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi come estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio, la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra le cose, la capacità delle persone in una capacità delle cose» (8).
L’esistenza del denaro «presuppone» la «reificazione» del contesto sociale, ossia un «rapporto reificato tra le persone». «Gli individui hanno alienato, sotto forma di oggetto, la loro propria relazione sociale». Questo sviluppo del valore di scambio e relativi rapporti monetari porta alla progressiva autonomizzazione del mercato mondiale e a sua volta li condiziona:
«Nel mercato mondiale, la connessione del singolo individuo con tutti, ma nello stesso tempo anche l’indipendenza di questa connessione dai singoli individui stessi, si è sviluppata a un livello tale che perciò la sua formazione contiene già contemporaneamente la condizione del suo trapasso» (9).
Marx sottolinea come questo nesso materiale è un «prodotto storico» e che gli individui «non possono subordinare a sé i loro stessi nessi sociali prima di averli creati». Anche gli individui «universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono già assoggettati al loro proprio controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia».
In definitiva, il «presupposto» di tale sviluppo universale delle capacità individuali è la produzione basata sui valori di scambio che produce, con l’universalità, sia l’alienazione dell’individuo da sé e dagli altri, sia «l’universalità e l’organicità delle sue relazioni e delle sue capacità».
All’osservazione «in superficie», lo scambio di valori di scambio è il regno apparente dell’uguaglianza e della libertà: le merci in quanto valori di scambio, sono valori equivalenti. Né ci si può appropriare della proprietà altrui con la violenza. Uguaglianza e libertà sono condizioni dello scambio di valori di scambio; esse a loro volta «presuppongono» rapporti di produzione non ancora realizzati nel mondo antico e nemmeno nel medioevo» (p. 59). Ecco che sotto la superficie «si verificano ben altri processi» in cui libertà e uguaglianza dell’individuo «scompaiono»: il valore di scambio generalizzato è già coercitivo rispetto all’individuo che a tale valore deve sottostare come, appunto, a un presupposto; il prodotto non è prodotto per l’individuo ma lo diventa solo socialmente, «l’individuo è totalmente determinato dalla società» (p. 60). È in questo sottofondo che agiscono le condizioni dell’alienazione come suoi presupposti storici. Lo scambio tra lavoro salariato e capitale fa sì che solo la forma dello scambio sussista, non il contenuto, in quanto il «tempo di lavoro vivo che [il capitalista] riceve nello scambio non è il valore di scambio, bensì il valore d’uso della forza-lavoro» la quale, in quanto merce, è comprata proprio per creare valori di scambio e dunque «va oltre il contenuto della forza-lavoro, senza un equivalente». (p. 69). Si ha un «rovesciamento» dialettico:
«Lo scambio si rovescia nel suo contrario, e le leggi della proprietà privata – la libertà, l’uguaglianza, la proprietà, la proprietà sul proprio lavoro e la libera disposizione su di esso – si rovesciano nella mancanza di proprietà dell’operaio e nell’espropriazione del suo lavoro, nel suo riferirsi ad esso come a proprietà altrui e viceversa» (p.70)
Come storicamente condizionate sono le condizioni dell’alienazione della forza-lavoro, così lo sono quelle della sua soppressione:
«Riconoscere i prodotti come prodotti suoi [della forza-lavoro] e giudicare la separazione dalle condizioni della sua realizzazione come separazione indebita e forzata è una coscienza enorme che è essa stessa un prodotto del modo di produzione basato sul capitale, e al tempo stesso il rintocco funebre del suo giudizio finale, al pari della coscienza dello schiavo di non poter più essere proprietà di un terzo, la sua coscienza di essere una persona, la coscienza che la schiavitù ormai continua a vegetare soltanto come un’esistenza artificiosa e non può più continuare ad essere la base della produzione.» (p. 64)
Un’ultima osservazione va fatta sull’avanzamento teorico di Marx nei Manoscritti del 1844 rispetto al Capitale e relativi manoscritti, su cui si sofferma Marcello Musto nella sua Introduzione. L’autore sostiene che tale avanzamento teorico «non consiste solo in una più precisa descrizione delle manifestazioni dell’alienazione, ma anche in una differente elaborazione circa le misure considerate necessarie per il suo superamento» e aggiunge che «nel 1844 Marx aveva ritenuto che gli esseri umani avrebbero eliminato l’alienazione mediante l’abolizione della produzione privata e della divisione del lavoro, nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica e ne Il Capitale il percorso per costruire una società libera dall’alienazione diveniva molto più complesso». (p. 13). Abbiamo ripercorso per sommi capi il cammino teorico e pratico di Marx fin dalla fase precedente i Manoscritti del 1844, proprio per evidenziare la natura di tale percorso, individuando nella dialettica come atteggiamento di pensiero e azione pratica quel filo conduttore che spiega le svolte e le acquisizioni teoriche. È ovvio, anche per noi, che ci sia una sempre più precisa e articolata descrizione delle manifestazioni dell’alienazione. Non abbiamo però riscontrato quanto afferma Musto circa le misure per il superamento della condizione dell’uomo alienato, ossia che nei Manoscritti del 1844, tali misure consistano nella abolizione della produzione privata e della divisione del lavoro. Tali misure, del resto, risultano inconcepibili nel metodo di pensiero di Marx, che non contempla misure o «ricette» per l’avvenire, e sono aspramente da lui criticate in Proudhon, Fourier, Saint Simon e nel comunismo rozzo, di cui sopra. Entrambe le «misure» indicate da Musto farebbero di Marx nel 1844 una sorta di luddista economico-sociale che mirerebbe a riportare indietro la ruota della storia. Marx non attacca nei Manoscritti la «produzione privata» ma l’«appropriazione» privata, così come non accusa la «divisione del lavoro» come acquisizione e avanzamento dell’intera specie, bensì la divisione «sociale» del lavoro, ossia la scissione in classi antagoniste, che è la manifestazione della natura economico-sociale dell’alienazione. Che l’alienazione non a caso sia stata barbaramente ridotta ad un puro fatto psico-logico e individuale nel secolo scorso, come prima fu descritta come fatto dello spirito da Hegel, è l’effettivo rispecchiamento, nella coscienza borghese, di una società irrimediabilmente scissa negli antagonismi del bellum omnium contra omnes. Quanto alle «misure» di Marx, quelle successive rispetto all’epoca dei Manoscritti, le si può vedere sia nel Manifesto, sia nella successiva Critica del Programma di Gotha, e non vanno certo in quella direzione indicata da Musto come suggerita dal Marx del 1844. Se fosse così, non di «svolta» si tratterebbe, ma di flagrante contraddizione.
Dante Lepore
Per cura dell’Associazione Culturale PonSinMor
Note
1. Importante, per la ricostruzione del percorso di Marx, M. DAL PRA, La dialettica in Marx, Bari, Laterza, 1965.
2. Nel testo, a p. 30.
3. Su questo tema, cfr. DANTE LEPORE, Natura Lavoro Società. Alle origini del pensiero razionale, Torino, 1999.
4. Ivi.
5. Sul ruolo creativo dell’uomo nell’ambito della biosfera, cfr. le profonde osservazioni di LOREN GOLDNER, L’avanguardia della regressione. Pensiero dialettico e parodie postmoderne nell’era del capitale fittizio, PonSinMor, Torino, 2004.
6. Cfr. EFTICHIOS BITSAKIS, La natura nel pensiero dialettico, PonSinMor, Gassino Torinese, 2009.
7. Il tema sarà ripreso da ENGELS, Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia; cfr. su ciò, DANTE LEPORE, op. cit.
8. P. 45 del testo.
9. P. 48 del testo.
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