Michael Roberts, Inventati, 24/03/2016
Vedasi anche: recensione di “IMPERIALISMO NEL 21° SECOLO” di John Smith (in Inglese)
Il libro di John Smith è un potente e bruciante atto d’accusa dello sfruttamento di miliardi di persone in quello che veniva chiamato Terzo Mondo e che ora da parte dell’economia principale vengono denominate come economie “emergenti” o “in via di sviluppo” (e che da Smith viene chiamato “il Sud”). Ma il libro è molto, molto più di questo. Dopo anni di ricerche che includono anche una tesi di dottorato, John ha dato un importante ed originale contributo alla nostra comprensione del moderno imperialismo, sia a livello teorico che empirico. In tal senso il suo libro “Imperialismo” è un complemento a “THE CITY” di Tony Norfield, già recensito qui – o potrei anche dire che è il libro di Tony ad essere un complemento di quello di John Smith. Mentre il libro di Tony Norfield mostra lo sviluppo del capitale finanziario nei moderni paesi imperialisti ed il dominio di potere finanziario del “Nord” (Stati Uniti e Gran Bretagna, ecc.), John Smith mostra come sia il “super-sfruttamento” dei lavoratori salariati nel “Sud” ad essere la base del moderno imperialismo nel 21° secolo.
Il libro comincia con alcuni esempi di come i lavoratori salariati nel Sud siano “super-sfruttati” per mezzo di salari al di sotto del valore della forza lavoro (i lavoratori tessili del Bangladesh): “I salari di fame, le fabbriche come trappole mortali, ed i fetidi slum del Bangladesh sono rappresentativi delle condizioni patite da centinaia di milioni di persone che lavorano in tutto il Sud globale, sono la fonte del plusvalore che sostiene i profitti ed alimenta un sovra-consumo insostenibile nei paesi capitalisti” (p.10)… e come il plusvalore creato da questi lavoratori super-sfruttati viene acquisito dalle corporazioni trans-nazionali e trasferito attraverso la “catena del valore” ai profitti dei paesi imperialisti del Nord (Apple, I-phone e Foxconn). “L’unica parte dei profitti della Apple che appare avere origine in Cina, è quella risultante dalla vendita dei suoi prodotti in quel paese. Come nel caso delle T-shirt made in Bangladesh, anche con gli ultimi gadget elettronici, il flusso di ricchezza proveniente dai salariati cinesi e da altri lavoratori a basso salario che sostiene i profitti e la prosperità delle aziende e delle nazioni del Nord, diventa invisibile sia nei dati economici che nei cervelli degli economisti” (p. 22).
Smith sottolinea come quel “circa 80% del commercio globale (in termini di esportazioni lorde) è legato alla produzione internazionale delle multinazionali”. UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development) stima che “circa il 60& del commercio globale… consiste di scambio di beni e di servizi che sono incorporati nei diversi stadi del processo di produzione di beni e di servizi per il consumo finale.” (p. 50). Smith sostiene che l’esternalizzazione sia stata un strategia consapevole dei capitalisti, un’arma potente contre le organizzazioni sindacali, per reprimere i salari ed intensificare lo sfruttamento dei lavoratori a domicilio, ed ha portato soprattutto ad un’enorme espansione dell’occupazione di lavoratori nei paesi a basso salario… ” Una caratteristica sorprendente dell’attuale globalizzazione è che un quota molto grande e crescente di forza lavoro in molte catene globali di valore ora si trova nelle economie in via di sviluppo. In poche parole, il centro di gravità di gran parte della produzione industriale mondiale si è spostata dal Nord al Sud dell’economia globale”, dice Smith citando Gary Gereffi.
Smith affronta il punto di vista neoclassico secondo il quale i salari sono bassi nel Sud perché lì è la produttività ad essere bassa. Questo punto di vista – sottolinea Smith – “non è mai stato criticato sistematicamente dai critici eterodossi e dai critici marxisti del neoliberismo… (e) contemporaneamente la scuola marxista,… con poche ma significative eccezioni… è sorprendentemente indifferente ed accetta l’argomento degli economisti borghesi secondo il quale le differenze internazionali di salario riflettono le differenze internazionali nella produttività del lavoro.” C’è un tentativo deliberato da parta della teoria borghese neoclassica di identificare la crescita dei salari con la produttività del lavoro e molti marxisti sono d’accordo con questo in quanto confondono valore d’uso (la produzione di cose e di servizi) con il loro valore (i prezzi di produzione). Invece, “le differenze salariali sono influenzate in maniera significativa dalla soppressione coercitiva della mobilità del lavoro – in altre parole, da un fattore che, rispetto a questo, è del tutto indipendente dalla produttività”. (p.240)
Ma la teoria economica ufficiale nega tale realtà. Ciò porta all’idea che i lavoratori in Cina ricevano la loro “quota equa” in salario, dato il loro livello di produttività. Smith cita Martin Wolf che nel 2005, nel suo libro “Why globalization works”, lodava i benefici della globalizzazione (Adesso Wolf, nel suo ultimo libro, ha dimenticato quali fossero i benefici della globalizzazione che aveva percepito). “E’ giusto dire che le imprese trans-nazionali sfruttano i loro lavoratori cinesi nella speranza di trarre profitto. E’ altrettanto giusto dire che i lavoratori cinesi stanno sfruttando le multinazionali nella (quasi universalmente rispettata) speranza di ottenere paghe più alte, miglior formazione e maggiori opportunità.” (Wolf).
In contrasto col punto di vista di Wolf, l’enorme proletariato a basso salario emerso negli ultimi 30 anni è la chiave per i profitti dell’imperialismo, trasferiti dal Sud al Nord. Smith fornisce la prova di tutto questo. Nel 2010, il 79%, ovvero 541milioni, di lavoratori industriali del mondo viveva nelle “regioni meno sviluppate”, rispetto al 34% del 1950 ed il 53% del 1980, confrontato con i 145milioni di lavoratori industriali, ovvero il 21% del totale, che nel 2010 viveva nei paesi imperialisti (p.103). Per i lavoratori dell’industria manifatturiera, questo cambiamento è stato ancora più drammatico. Ora, l’83% della forza lavoro manifatturiera del mondo vive e lavora nelle nazioni del Sud globale.
La “popolazione economicamente attiva” (EAP) del mondo è cresciuta da 1,9 miliardi del 1980 a 3,1 miliardi del 2006, un incremento del 63%. La quasi totalità di questa crescita numerica è avvenuta nelle “nazioni emergenti”, in cui ora risiede l’84% della forza lavoro globale, 1,6 miliardi dei quali lavoravano per un salario, il rimanente miliardo erano piccoli contadini ed una moltitudine di persone che lavorano nel mondo infinitamente variegato della “economia informale” (p.113)
Il proletariato mondiale non è mai stato così grande sia nei numeri che nella sua quota di forza lavoro totale. E tuttavia la quota dei salari come parte del reddito nazionale è crollata, sia nel Sud che nel Nord. Secondo l’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), dai primi anni 1990 la “quota di reddito nazionale che va al lavoro… è diminuita in quasi tre quarti dei 69 paesi che dispongono di informazioni a questo proposito.” Il calo è generalmente più pronunciato nelle economie emergenti e in via di sviluppo che in quelle avanzate. Il calo nella quota destinata al lavoro in queste economie è molto ripido – in Asia cade di circa il 20% fra il 1994 ed il 2010; inoltre, “Il ritmo del calo ha accelerato… negli anni recenti, con la quota dei salari che perdono più dell’11% fra il 2002 ed il 2006.
Come scrive Smith, “I salari pagati agli operai nel Sud sono influenzati da dei fattori che non hanno alcuna attinenza o rilevanza per quel che concerne la produttività di questi operai sul posto di lavoro, ma sono fattori che derivano dalle condizioni del mercato del lavoro e più in generale dalle strutture sociale e dalle relazioni che riguardano la riproduzione della forza lavoro, ivi inclusa la soppressione della libertà di movimento del lavoro a livello internazionale e l’emergere di un vasto surplus relativo di popolazione nel Sud globale. Questo crea una voragine nell’edificio traballante dell’economia principale”.
Si arriva così ad uno principali punti teorici di Smith. Il capitalismo è iniziato a partire dalla sfruttamento del lavoro attraverso il plusvalore assoluto (una giornata lavorativa più lunga) e, naturalmente, portando sempre più persone a svolgere la funzione di forza lavoro. Poi, il capitalismo sviluppato – come viene mostrato da Marx, nel capitale, per l’Inghilterra – ha visto l’ascesa ed il dominio del plusvalore relativo, nello specifico attraverso la tecnologia che riduce il valore della forza lavoro nel corso della giornata lavorativa. Ma ora, nel 21° secolo, sostiene Smith, lo sfruttamento dei lavoratori del Sud avviene sempre meno attraverso l’espansione del plusvalore assoluto e relativo, e sempre più attraverso l’abbassamento dei salari al di sotto del valore della forza lavoro (super-sfruttamento).
Marx, nel Capitale, ha riconosciuto in questo un’importante forma di sfruttamento del lavoro, ma ha sostenuto che il capitalismo potrebbe sfruttare la forza lavoro ed appropriarsi del plusvalore anche senza di essa. Marx riteneva che i fattori che contrastano la tendenza alla caduta del saggio di profitto non fossero soltanto un crescente tasso di sfruttamento o una diminuzione dei costi della tecnologia, oppure anche un incremento del commercio con l’estero e la finanziarizzazione del capitale, ma anche la riduzione dei salari al di sotto del valore della forza lavoro (super-sfruttamento). Nella sua analisi astratta delle leggi della dinamica del capitale, Marx escludeva questo fattore, ma “Come molte altre cose che potrebbero essere introdotte, esso non ha niente a che fare con l’analisi generale del capitale, ma ha un suo ruolo in una situazione di concorrenza, che non viene trattata in questo lavoro. Ma rimane nondimeno uno dei fattori più importanti nell’arginare la tendenza del saggio di profitto a cadere”. (p. 240)
Ma oggi, secondo Smith, tutt’e tre i modi di sfruttamento del lavoro sono all’opera. e il terzo modo è quello più significativo nel Sud, sostiene Smith, perché il Nord imperialista trova che questa sia il modo migliore e più facile per appropriarsi lì del plusvalore. Smith ritiene che questo sviluppo sia stato ignorato, trascurato o confuso da quelli che lui chiama gli “Euro-marxisti” i quali sostengono che i lavoratori del Nord sono più sfruttati di quelli del Sud perché sono più produttivi.
Smith conclude che tale confusione è sorta a causa dell’uso che l’economia ufficiale ha fatto del PIL e del “valore-aggiunto” e che è stato accettato quasi senza nessuna discussione dagli economisti marxisti. Si può vedere come il Prodotto Interno Lordo (PIL) nasconda il fatto che gran parte del valore, ad esempio nel PIL degli Stati Uniti, non sia valore creato dagli operai americani ma che esso viene appropriato per mezzo dello sfruttamento multinazionale ed i prezzi di trasferimento dei profitti creati dallo sfruttamento dei lavoratori del SUD. Il PIL confonde la creazione di valore con l’appropriazione di valore, e così facendo nasconde lo sfruttamento del SUd da parte del Nord imperialista: “PIL come misurazione di quella parte del prodotto globale che viene preso o appropriato da una nazione, non misura quello che viene prodott internamente. La ‘I’ di PIL, in altre parole, è una menzogna.” (p.278).
Perciò, secondo Smith, la famosa analisi dell’imperialismo fatta da Lenin un centinaio di anni fa, e che ora viene rifiutata come inadeguata, è ancora giusta. Ci sono “nazioni che opprimono” e “nazioni oppresse” e quali che siano le une e le altre non è determinato solo dal potere finanziario (Norfield) ma anche dal super-sfruttamento attuato in maniera sistematica del proletariato del Sud oppresso . Quindi “Riguardo le questioni cruciali – il carattere di sfruttamento che hanno le relazioni fra nazioni centrali e periferiche, il più alto tasso di sfruttamento di quest’ultime, e la centralità politica delle lotte nel Sud globale – avevano ragione i sostenitori marxisti della Teoria della Dipendenza, ed i loro critici ortodossi avevano torto.” (p. 223)
Ma perché l’imperialismo si è sviluppato in un modo tale da fare assumere allo sfruttamento la forma di super-sfruttamento? In parte è avvenuto perché in paesi con una forza lavoro, precedentemente rurale e contadina, in rapida crescita, i regimi autoritari del Sud e le potenti multinazionali del Nord sono stati in grado di aver ragione dei consueti limiti sociali che si oppongono a salari troppo bassi, orari e condizioni di lavoro, ecc. di modo che quei salari hanno potuto essere tenuti al di sotto del valore della forza lavoro (il costo delle necessità vitali). Inoltre, Smith insiste su come la soppressione della mobilità internazionale del lavoro da parte del Nord abbia contribuito, come possiamo vedere assai bene nell’attuale crisi migratoria in Europa.
Ed è anche una risposta ai cambiamenti (caduta) della redditività del capitale nelle economie imperialiste nordiste, in particolare a partire dalla metà degli anni 1970 in poi. Nel Nord, con la ‘globalizzazione’ del Sud, le politiche salariali neoliberiste, i servizi pubblici, i sindacati, così come il capitale delle maggiori potenze imperialiste, hanno sperimentato una netta caduta di redditività. Come sostengo nel mio prossimo libro, “The Long Depression” (in uscita a maggio), qualcosa di simile è successo durante l’ultimo periodo dell’espansione imperialista cominciato nel 1890, che portò all’esportazione di capitale verso il Sud (America Latina, Asia) e ad una crescente rivalità imperialista che aveva come oggetto le colonie e il profitto coloniale, culminata poi nella Prima guerra mondiale.
E’ stato questo, ciò che ha descritto Lenin. Ma, come dice la citazione di Andy Higginbottom fatta da Smith, quel che c’è inadeguato nell’analisi fatta Lenin della nascita dell’imperialismo visto come fase suprema del capitalismo alla fine del 19° secolo, non è il fatto che lo sfruttamento attualmente sia minore nel Sud di quanto lo sia nel Nord o che non ci siano più realmente paesi oppressori ed oppressi, ma consiste nel fatto che “Lenin non teorizza l’imperialismo in relazione alla crescente composizione organica del capitale o alla tendenza alla caduta del saggio di profitto… Questa incompletezza teorica è atipica in Lenin, ed è anche in netto contrasto con le sue stesse analisi economiche dello sviluppo del capitalismo in Russia, che sono saldamente basate sulle categorie de Il Capitale.” (p. 229).
Smith arriva a concludere che gli economisti marxisti del Nord, nel dibattere il ruolo della legge della tendenza alla caduta del saggio di profitto, non tengono conto delle variazioni internazionali del tasso di sfruttamento (s/v), come fanno invece con i cambiamenti nella composizione organica del capitale (c/v). Può essere vero che in questo dibattito gli economisti marxisti abbiano “ignorato il fatto che una parte consistente di plusvalore che viene appropriato dalle imprese nei paesi imperialisti e realizzato come profitto è stato estratto dai lavoratori nei paesi a basso salario”. (p. 248). Però non sono stati ignorati i movimenti complessivi nel s/v. Infatti, una delle caratteristiche del periodo post-1945 è quella che nelle maggiori economie il tasso di plusvalore è cresciuto, mentre il tasso di profitto è caduto (nel corso del secolo). Nei miei lavori, ho mostrato che questo è il caso degli Stati Uniti, e in uno scritto recente sul tasso mondiale di profitto che questo include anche le economie del Sud del G20, come Brasile, Russia, Cina e India. Esteban Maito ha svolto un lavoro simile con simili risultati (Maito, Esteban – The historical transience of capital. The downward tren in the rate of profit since XIX century).
Non stiamo ignorando il movimento nel tasso globale di sfruttamento. Infatti ciò che questo libro mostra è che, sebbene il livello dei tassi di profitto siano più alti nel Sud, essi sono caduti nonostante la crescita ed il più alto s/v, a causa del plusvalore assoluto, del plusvalore relativo o del super-sfruttamento. Nella tabella successiva si vede il mio calcolo del tasso di profitto nel G7 e nelle economie del BRIC, nel corso degli ultimi 60 anni.
Quindi la legge indica i limiti del futuro a lungo termine del capitale (e dell’imperialismo). Infatti, un nuovo libro mio e di G. Carched (in uscita quest’anno) raccoglie il lavoro degli economisti marxisti ‘non-Euro’ e mostra come la legge di redditività identificata da Marx operi sia nel Sud che nel Nord.
In effetti, non sono sicuro che Smith abbia dimostrato che il “super-sfruttamento” sia la caratteristica dominante del moderno imperialismo. Come fa vedere Smith, anche l’imperialismo del 19° secolo si basava sul super-sfruttamento delle masse nelle colonie (a livello di schiavitù) e nell’industrializzazione di paesi imperialisti come l’Inghilterra della fine del 18° e dell’inizio del 19° secolo i salari al di sotto del valore della forza lavoro erano un potente fattore nello sfruttamento del lavoro (vedi Engels, Le condizioni della classe operaia in Inghilterra).
Del resto, il super-sfruttamento è visibile anche nelle economie imperialiste. I contratti a ‘Zero ore’, in cui il lavoratori sono a completa disposizione dei datori di lavoro a tutte le ore per una paga minima, in Inghilterra ora riguardano due milioni di lavoratori. In tutta l’Europa meridionale, dove il tasso di disoccupazione giovanile è intorno al 40-50%, i giovani sono costretti a vivere con i loro genitori e a guadagnare somme ridicole in lavori a bassa retribuzione e temporanei. I dati mostrano come nel Nord (inclusi gli Stati Uniti) la povertà sia cresciuta a partire dagli anni 1980 e riguarda il 10% delle famiglie.
E l’altra faccia della medaglia è che, accanto al super-sfruttamento, c’è anche lo sfruttamento del proletariato del Sud attraverso il plusvalore assoluto e per mezzo delle ultime tecnologie volte a risparmiare lavoro (plusvalore relativo) così come avveniva durante lo sviluppo del capitalismo industriale dal 19° secolo in poi. Foxconn può super-sfruttare la sua forza lavoro, ma impiega anche la tecnologia più recente. Questo è un aspetto di quello che Trotsky amava chiamare sviluppo combinato ed irregolare del capitalismo in epoca imperialista.
Ed è in questo dibattito intorno alla relazione fra legge della redditività di Marx e le cause delle crisi economiche nel moderno imperialismo globale che non sono sicuro dove Smith si venga a trovare. Egli afferma, correttamente direi, che “Sia che il saggio di profitto si incrementi o declini, quel che importa è se la massa totale di plusvalore è sufficiente a retribuire tutti coloro che contano su di essa.” Proprio così, quindi la massa totale di plusvalore a causa del funzionamento della legge di Marx diviene di regola insufficiente. E quando crolla la massa del profitto, non ci vuole molto perché investimento, occupazione e redditi seguano nella caduta.
Nel capitolo finale sulle cause della crisi, Smith respinge fermamente l’idea preminente fra gli economisti ufficiali ed eterodossi secondo la quale la crisi finanziaria globale e la Grande Recessione sono state finanziarie all’origine. In alternativa, suggerisce che la crisi sia stata ritardata grazie alla dislocazione a Sud delle imprese imperialiste a causa della ‘sovrapproduzione’ del Nord. Ma il concetto di sovrapproduzione serve a coprire una moltitudine di colpe. In Marx, la sovrapproduzione di merci è il risultato di sovraccumulazione di capitale, ma la sovraccumulazione di capitale è il risultato della caduta di redditività e profitto (sovraccumulazione assoluta).
Come mostra Smith in maniera brillante, il capitale del Nord ha recuperato gran parte del calo della sua redditività, sofferto negli anni 1970, per mezzo del super-sfruttamento del Sud: “il plusvalore estratto da queste nuove legioni di lavoratori sottopagati è servito a tirar fuori il capitalismo dal buco in cui era caduto negli anni 1970″. Come nota Smith, l’incremento del debito si è aggiunto alla crisi finale di modo da conferirle una forma finanziaria. “Un incremento esponenziale dell’indebitamento è riuscito a contenere la crisi di sovrapproduzione, ma ha portato sul punto del collasso il sistema finanziario globale.”
A questa frase, va tolta la parola ‘sovrapproduzione’ e va sostituita con ‘redditività’.
Ci può anche essere più spazio perché l’imperialismo possa sfruttare globalmente il proletariato e contrastare così di nuovo, per un po’, la caduta della redditività. Ci sono ancora eserciti di riserva del lavoro nelle aree rurali di molti paesi che possono essere trascinati nella produzione globalizzata di merci (e sì, spesso con salari al di sotto del valore). Ma ci sono dei limiti alla capacità dell’imperialismo ad accrescere indefinitamente il tasso di sfruttamento, non da ultimo la lotta di questo nascente proletariato del Sud (e che è ancora sostanzialmente presente nel Nord).
La legge della redditività di Marx non viene e non verrà contrastata indefinitamente anche per mezzo del super-sfruttamento. La legge della redditività e la lotta del proletariato globale sono i talloni di Achille dell’imperialismo.
Pubblicato da MICHAEL ROBERTS BLOG il 7/3/2016
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