Attilio Folliero, Caracas 28/05/2016 - Aggiornato 29/05/2016
Foto: Dante Lepore e Associazione "Sacco e Vanzetti"
Foto: Dante Lepore e Associazione "Sacco e Vanzetti"
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Il tema dell'emigrazione è di gran attualità. Ma cos'è l'emigrazione? Perché esiste l'emigrazione? Su tale importante argomento, segnaliamo l'intervento di Dante Lepore, scrittore ed editore, che al al "Sacco e Vanzetti Memoral Day" del 2013, a Torremaggiore, ha espresso concetti di somma importanza, ma oggi del tutto trascurati.
Riassumendo, Dante Lepore dice: "Da quando l'uomo esiste, cammina, si sposta sul territorio alla ricerca di cibo, per sopravvivere, per lavorare, per produrre. Se non esistessero gli stati, non esisterebbe neppure l'emigrazione; dunque l'emigrazione, i migranti esistono perché esistono gli stati".
Di seguito il video dell'intervento di Dante Lepore e al finale (dopo le foto), la trascrizione dell'intero intervento.
Di seguito il video dell'intervento di Dante Lepore e al finale (dopo le foto), la trascrizione dell'intero intervento.
Ricordiamo che dal 2007 a Torremaggiore, in provincia di Foggia, città natale di Nicola Sacco, l’Associazione culturale "Sacco e Vanzetti" organizza il "Sacco e Vanzetti Memorial Day"; si svolge esattamente il 23 agosto, nello stesso giorno in cui nel 1977 l’allora governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, annunciava la dichiarazione d'innocenza dei due anarchici italiani che erano stati giustiziati esattamente 50 anni prima, il 23/08/1927.
Nel corso del “Sacco e Vanzetti Memorial Day” del 2013 ha partecipato il regista Giuliano Montaldo, autore del film "Sacco e Vanzetti" al quale è stato conferito il Premio Diritti Umani.
Ogni anno il memorial day ruota attorno ad un tema; per quell'edizione del 2013 il tema era “Associazionismo ed emigrazione: problemi e valori di ieri e di oggi”. Oltre a Giuliano Montaldo ed al citato Dante Lepore, numerose sono state le personalità intervenute: Matteo Marolla, Presidente dell'associazione "Sacco e Vanzetti"; Maria Fernanda Sacco, Presidente onorario dell'associazione; Costanzo Di Iorio, Sindaco di Torremaggiore; Antonio Laronga, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Foggia; Toni Riccardi, Scrittore, Givanni Mariella , Vice Presidente del Consiglio Generale dei "Pugliesi nel Mondo"; Domenico Rodolfo; Fernando Villani, Presidente dell’associazione "Pugliesi nel mondo" - Sez. Specchia (Le); Don Santino Di Biase, Vice Parroco; Dante Lepore, Scrittore ed editore; Nazario Vasciarelli, Scrittore ed attore; Giuseppe Calabrese; Edoardo Pugliello.
Sacco e Vanzetti Memorial Day del 23/08/2013
La cultura dell'integrazione contro l'odio e il pregiudizio (?)
Intervento di Dante Lepore, poi tenuto a braccio, al Sacco e Vanzetti Memorial Day di Torremaggiore, 23 marzo 2013
Devo
premettere che è solo un caso che, come Nicola Sacco, io sia Torremaggiorese e,
come Sacco e Vanzetti, io sia un emigrato da questa terra nell’ondata dei primi
anni ’60. Non è un caso però che queste due circostanze abbiano, tra le altre,
concorso ad essere quello che sono e mi guidino nell’imposta-zione del metodo
per uscire da questo tipo di società, per la costruzione, con la lotta, di un
mondo migliore.
Il mio
intervento consiste nella spiegazione di quel «?» da me aggiunto al titolo del
tema assegnatomi.
Per
brevità, data la ristrettezza dei tempi, riassumerò subito la mia tesi che è
questa: il fenomeno migratorio, come posto per lo più dai legislatori, non solo
in Italia ma in Europa e in tutto l’occidente capitalistico in termini di
«integrazione culturale», nelle sue varie versioni legislative nazionali, è un
problema falsato, perché considera quello migratorio come un fenomeno, una
«casualità» (accanto a fenomeni, anche essi ritenuti casuali, come la fame, la
miseria, le guerre, o il calo di natalità nelle metropoli imperialiste abbinato
allo smantellamento del welfare e del
sistema assistenziale e sanitario, che pure sono fattori concorrenti e
contingenti) e non invece come una costante nella storia degli insediamenti e
movimenti umani sul territorio. Come le merci e i capitali si spostano ormai da
una parte all’altra del pianeta, così li segue a ruota la parte complementare,
e dunque già integrata, quella della forza-lavoro, anche essa merce, la parte
variabile del capitale sociale complessivo. Questa è l’integrazione oggi. La manodopera,
la forza-lavoro, sia manuale che intellettuale, è già parte integrata nel
rapporto capitalistico. Non è dunque questione di «integrazione» culturale ma
di una battaglia volta alla formazione di una coscienza internazionale e internazionalista
della necessità di uscire finché si è in tempo da un sistema di sfruttamento
dell’uomo sull’uomo e sulla natura.
La cultura, quella antropologica e
materiale ovviamente, è altra faccenda, come vedremo, e riguarda gli stili di
vita, che per loro natura sono forme variabili di adattamento all’ambiente sia
naturale che umano. L’immigrazione è un processo che varia a seconda dei
caratteri del modo di produzione e per essere più precisi, è legata al lavoro,
ed è attraverso la mediazione del lavoro che agisce come fattore dinamico nel
processo di sincretismo culturale che per sua natura è mondiale.
Posto in
termini giuridici o di «integrazione» culturale (o viceversa di
«segregazione»), non solo il problema è mal posto, ma non supera il razzismo o
l’odio e il pregiudizio, come si sostiene, anzi lo suscita, lo alimenta, e lo
brutalizza ancor più che in passato. Per restare negli Stati Uniti, non c’è
dubbio, per es., che dalla marcia su Washington del 18 agosto del 1963 di
Martin Luther King, oggi esistono leggi contro la segregazione e c’è persino un
presidente di colore, ma il razzismo non è per questo debellato perché non si
identifica con la segregazione. Tra i neri, il tasso di disoccupazione è il
doppio di quello dei bianchi, la percentuale dei bambini in condizioni di
povertà è tre volte più alta, l’aspettativa di vita dei neri a Washington è inferiore
a quella dei residenti nella striscia di Gaza, un nero su tre nato nel 2001
finirà in prigione. Il problema si affronta, a mio modo di vedere, invece, nel
contesto della parabola complessiva del mondo capitalistico in decomposizione,
che sta drammaticamente producendo anche gli attuali fenomeni migratori ad
estensione planetaria che tutti vediamo (1).
Col
capitalismo, ormai globalizzato, lo spostamento di masse di popolazioni cambia
solo in quantità e nella dimensione spaziale, non più, come ai miei tempi,
ancora soltanto interna, tra Sud e Nord, ma da una parte all’altra del pianeta,
dalle aree cosiddette povere perché depredate dall’imperialismo, a quelle
cosiddette ricche e predatrici, che del resto era già in atto ai tempi di Sacco
e Vanzetti. Ma è riduttivo considerarle aree ricche e povere sorvolando su questa
stessa dicotomia che attraversa entrambe le aree dall’interno. Del resto le
direzioni cambiano nel tempo: Torremaggiore, da centro di emigrazione, ora è
interessata anch’essa da processi immigratori dal Nord Africa e dall’est
europeo. Da notizie da me raccolte, sembra che l’immigrazione in questa
cittadina sia dall’est europeo che dal nord Africa superi un quarto dei
residenti. È in definitiva una condizione che si accompagna alla stessa umanità
come specie, addirittura insita nel fatto di camminare.
I grandi
media, a parte alcuni specialisti, passano sotto silenzio il fatto che da
alcuni anni il rapporto tra popolazione rurale e urbana si è invertito, e oggi
la maggioranza della popolazione mondiale si è riversata in megalopoli e
conurbazioni che superano i 20 milioni di abitanti e talvolta praticamente dal
nulla (2). Il caso italiano, poi, è ancor più emblematico, dato che si dice vi siano più
italiani fuori che dentro la penisola. E che sia strettamente connessa al
lavoro, lo dimostra quel tipo d’immigrazione che si lega al lavoro domestico,
che è stata favorita dalla Chiesa cattolica ed anche da quella Evangelica (è
una immigrazione latino-americana, filippina, capoverdiana, srilankese). Ho
lavorato 5 anni a Roma e la domenica era uno spettacolo vedere colonne di
domestiche filippine davanti alle chiese in coda per la messa. Se fino a pochi
anni fa l'80 per cento dei migranti si spostava dai paesi del sud del mondo
verso il nord, oggi un terzo si sposta all'interno dei paesi più poveri, un
terzo continua a voler raggiungere i paesi più ricchi del nord (soprattutto
Europa e Usa), e l'ultimo terzo (vera e propria novità) dai Paesi più ricchi si
sposta nei paesi emergenti (Argentina, Brasile, Turchia) (3). E ciò rende sempre più vago il confine tra paesi di immigranti e paesi di
immigrati, nonché tra discriminati e discriminanti.
Dalla crisi del 2008, a partire
dall’inversione del 2010, e per la prima volta nel 2012, in Italia si sono
registrati più emigranti che immigrati. Contro un saldo di +27mila stranieri
sul suolo italiano rispetto al 2011, circa 50mila italiani – quasi il doppio –
sono emigrati all’estero (4).
Nel 2013, i connazionali che vivono all’estero raggiungono i 4 milioni e
200mila, avvicinandosi ai 5 milioni e 430mila stranieri residenti in Italia.
E si tratta prevalentemente di giovani laureati, un
tipo di emigrazione molto diverso rispetto a quello, povero, dei 26 milioni
che, in varie ondate e nell’arco di circa un secolo (fra il 1875 ed il 1975),
abbandonarono l’Italia con la valigia di cartone tenuta con lo spago in cerca
di un lavoro e di un futuro migliore.
Quello
dell’integrazione culturale è un
problema falsato anche perché considera le relazioni tra popolazioni come
rapporti statici tra gruppi umani ritenuti omogenei che, nel venire a contatto
tra loro, resterebbero eternamente uguali a se stessi, conservando inalterate
le proprie «identità» e mantenendo ferme le rispettive «differenze». Lo dimostra
il fatto che questa millantata integrazione culturale si riassume in un pezzo
di carta, dal «permesso di soggiorno» al «papier», tanto che ormai si dice
«sans papier» per intendere immigrato o straniero, come si diceva un tempo per
gli emigrati italiani wop (without passaport e trasposizione di 'uappo'), oppure dago (per la nomea di accoltellatori, da dagger, ovvero 'coltello', 'accoltellatore'), carcamano (usato in Brasile per indicare una persona che truffa sul
peso della bilancia), macaroni (mangiatori
di pasta), mentre gli italiani del boom chiamavano albanesi, marocchini,
romeni, senegalesi, zingari indistintamente «vucumprà», con connotazioni di sporco, criminale e ladro. Una volta
si diceva semplicemente «forestiero»
per un’immigrazione da lì appena dietro l’angolo.
Ora,
fermiamoci un attimo: qual è il senso della cultura come «differenza»? La
«differenza», o l’alterità, è un fatto reale che riassume percorsi umani di
varia natura, processi economici, rapporti sociali, tecnologie, evoluzioni artistiche,
linguistiche, costumi, abitudini alimentari, ecc., necessariamente differenti
per intensità e tempi. La «differenza» (per Hegel e per Marx) è una
contraddizione nell’ambito di uno stesso processo e non può che approdare ad
una unità che è sintesi più alta.
Senza
addentrarci troppo nell’analisi filosofica, l’impostazione culturale che sta a
fondamento delle legislazioni comunitarie sugli immigrati rientra in una forma
mentis che possiamo definire «eurocentrica»: un’ideologia in cui si esprime la
tendenza delle potenze imperialiste a «smembrare» qualsiasi impulso all’unità
regionale, qualsiasi tendenza unitaria delle popolazioni, delle culture e delle
civiltà verso l’unità, come mostrano gli esempi, prima della balcanizzazione e poi della libanizzazione. È una visione tipica
delle ideologie postmoderne (le cui ascendenze risalgono alla visione di
Nietzsche e Heidegger) quella di considerare la cultura europea come una sorta
di ombelico del mondo. Per i postmoderni la «differenza» è un concetto metafisico,
assoluto, irriducibile, statico, di pura negatività e dunque da tener lontana.
Ma è una costruzione culturale monca nel suo filo ellenismo, che ha occultato e
oscurato il momento fondamentale e non occidentale della storia, sia
nell’antico Egitto che nella sua ulteriore elaborazione ad Alessandria e
nell’Islam, e dunque le culture del mediterraneo orientale e del mondo
musulmano.
Ora, è un
fatto che i «popoli», anche se nel linguaggio corrente della comunicazione continuiamo
a chiamarli tali, hanno già al loro interno la negatività, il loro «lato
cattivo» (come lo chiamava Hegel), e noi usiamo peraltro il termine di
«comunità» e simili, mentre popoli e comunità non sono affatto omogenei, né
socialmente né culturalmente. Potrei sviluppare questa considerazione anche in
merito a concetti come quello abusato di razza
o di etnia, ma credo che basti un
cenno. E ciò è constatabile sia nel nostro Occidente che, soprattutto, nei
paesi attualmente investiti da profondi sommovimenti sociali come l’Egitto.
I greci
antichi tanto mitizzati dall’eurocentrismo come fondamento della propria
civiltà, erano un popolo a discendenza mista. Peraltro, essi avevano alle
spalle la civiltà egizia, di cui tutti sembrano dimenticarsi. Come gli arabi
del resto hanno alle spalle la scienza e la cultura alessandrina. Una mappatura
genetica delle popolazioni da questa sponda del Mediterraneo (come già
osservato nella I parte) mostra bene una notevole componente di discendenza
araba, come del resto il vocabolario italiano, francese, spagnolo, portoghese e
soprattutto siciliano. La presenza della civiltà araba e berbera la si
rintraccia persino nei cognomi (es. Morabito). Questa integrazione culturale,
dunque, esiste già, come parte di un unico processo. Semplicemente perché la
negatività non è assoluta, ma è un momento del processo che è unico, è
un’energia propulsiva tendente a modificare lo stato di cose esistente e in cui
positivo e negativo non se ne stanno fermi a guardarsi e a respingersi, ma si
compenetrano a vicenda. Tutto scorre.
I media
semplificano troppo e parlano di conflitti religiosi, o tra laici e religiosi,
o tra integralismi opposti, quasi sempre cristiani e musulmani. Se osserviamo però con attenzione (che è la
prerogativa dell’arte, della poesia, ma anche della scienza) noteremo che
dietro queste apparenze ci sono motivi più profondi, quasi sempre di natura
socio-economica.
Il Libano,
per es., detto Paese dei cedri, occupa un territorio in cui si sovrappongono in
spazi ristretti molte culture e aggregazioni sociali. La loro normale
convivenza fu secolare, ma dalla seconda metà del Novecento è stata sconvolta
da numerosi fattori politici connessi con l’aggressività imperialista
post-coloniale. Non si è trattato di una guerra tra due parti opposte, ma di
una guerra per bande di tutti contro tutti. Come sta accadendo per la Siria,
per l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia (molta parte qui ce l’ha l’Italia) e ora
anche per l’Egitto.
Nei
Balcani, regione strategica per le grandi potenze, e interessati dalla fine
dell’impero austro-ungarico da una dinamica dissolutiva che ha innescato due
guerre mondiali, analogo fenomeno ha un termine che lo sintetizza, la
«balcanizzazione», dove ricorderete tutti le cosiddette «pulizie etniche».
Ugualmente
emblematico il termine «libanizzazione», entrato nel linguaggio politico per indicare
una situazione di forte frammentazione politica, culturale e sociale su un
ristretto territorio, che porta all’ingovernabilità, in forte contrasto con la
precedente convivenza sul piano religioso, tra almeno 18 confessioni ufficiali
[fra i cristiani: quelle maronita, greco-ortodossa, greco-cattolica (melchita),
armeno-apostolica, armeno-cattolica, siriaco-ortodossa, siriaco-cattolica,
protestante, copta, assira, caldea, e la cattolica di rito latino; fra i musulmani:
le comunità sunnita, sciita, ismailita e, in aggiunta, le comunità alauita e
drusa. E non dimentichiamo la comunità ebraica]. I media riducono sempre e
parlano di conflitti tra cristiani e musulmani, o semplicemente di conflitti
…religiosi o di laici e religiosi, di opposte tendenze, così nessuno ci capisce
niente.
Soprattutto,
si sorvola sulle demarcazioni sociali, sulle classi e sui rispettivi
antagonismi che animano i conflitti all’interno delle presunte «comunità».
Questo accade da svariati millenni, bisogna pur prenderne atto. La comunità
primitiva si lega ad un processo di produzione dei camminanti: la raccolta dei
frutti non era legata alla stanzialità, che interviene con la «rivoluzione
neolitica», quando si dà vita all’agricoltura.
Dunque: le
comunità storiche sono delle astrazioni che noi facciamo dal concreto vivente,
ossia una totalità che concresce nella ricchezza delle sue molteplici
determinazioni, che si muove e trasforma in continuazione. Nella realtà
storica, la comunità materiale umana (Gemeinwesen)
ha perso il suo carattere organico e si è frammentata storicamente con la
comparsa della proprietà, appunto «privata», dei mezzi di lavoro e di
produzione e non più comunitaria, dando vita a varie forme di famiglie e classi
sociali contrapposte.
La
disgregazione della comunità originaria tocca il suo apice con lo stato moderno
(a base territoriale e relativamente linguistica nazionale) e con il
conseguente individualismo estremo del capitalismo della cosiddetta libera
concorrenza. L’idea che riassume questo processo è il «bellum omnium contra omnes» di Hobbes. Ciò che renderebbe
comunitaria (si fa per dire) questa guerra di tutti contro tutti sarebbe poi
quella sorta di mano invisibile della
divina provvidenza di Adam Smith, che
porterebbe comunque verso il migliore dei
mondi possibile.
In questo
contesto, sono gli individui i veri soggetti dell’integrazione. Essi entrano
già «integrati» nei rapporti materiali economici e sociali, ci entrano davvero,
o come schiavi o come servi o come lavoratori a salario. La comunità è stata
soppiantata dalla formazione economico-sociale: quella capitalistica è
strutturata nel rapporto tra capitale e lavoro salariato. L’integrazione
dell’immigrato avviene ogni giorno a questo livello molecolare: vai via dalla Libia
o dall’Egitto sui boat people per
andare ad «integrarti» in questo rapporto, in questa società tutt’altro che
internamente pacificata, nella forma del facchino dell’Ikea o della Granarolo,
come nel 1908 Sacco e Vanzetti emigravano in America come individui per
integrarsi come erano nell’unica comunità reale del mercato della forza-lavoro
e nella forma del più spietato caporalato mafioso. Naturalmente, il fatto che
nei territori ex coloniali gli Stati fossero tracciati con riga e compasso sulla
carta geografica aggiunge divisione a divisione, come nel caso dei curdi,
artificio ad artificio, tanto per complicare le cose.
L’eurocentrismo, tra le sue ideologie, ha
elaborato quella più conforme alla sua mentalità, in un relativismo delle culture
o, come si favoleggia, un «multiculturalismo».
L’idea di fondo è quella, un po’
donchisciottesca, che il «fenomeno» si possa pilotare valorizzando le «diverse»
culture riconoscendone dignità e valore. Nella «comunità» nazionale
d'«accoglienza» viene riconosciuta grande importanza alle singole comunità
«etniche», che diventano interlocutori pubblici ufficiali e accreditati
rispetto alle istituzioni. Il suo muro di gomma è però sempre quel relativismo
culturale che non permette ai diversi gruppi, e tanto meno agli individui, di
dialogare ma li porta al pregiudizio costruito, all’odio fomentato, allo
scontro provocato. Questa idea balzana nasce dalla visione colonialista europea
e guarda caso è presente nel modello detto non a caso di «incorporazione
nazionale» inglese in base all’esperienza coloniale del Commonwealth, commista poi nel secondo dopoguerra al modello
nord-americano del melting pot,
metafora di una società come di una pentola (come dice il termine) in cui le
culture si fonderebbero mantenendo però le rispettive identità e differenze,
che come abbiamo visto, sono ritenute irriducibili.
La multi
cultura della cosiddetta «integrazione» si configura dunque come una sorta di micro
libanizzazione applicata ai diversi stati nei quali il sistema delle reciproche
«differenze», con lo scontro interetnico e interculturale sempre latente come
fattore di indebolimento delle forze interne al paese, favorirebbe il ruolo
equilibratore dei governi. Insomma tra i vari litiganti il più forte se la gode,
come in una società per azioni.
Una società
dunque ridotta ad una sommatoria di comunità ghettizzate, incapaci di giungere
a unità superiore omogenea e in cui le esaltate diversità portano, anziché al
dialogo im-maginato, alla scontro interetnico e al razzismo tutt’altro che
immaginario. Il caso emblematico è quello del modello cosiddetto
«assimilazionista» francese, anch’esso di origine coloniale, che meglio si
presta agli scontri interetnici.
Stendo un
velo pietoso sugli esempi italiani, dalla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini,
dandoli per noti e sottolineando come anche qui abbiamo un modello che risale
al mito coloniale tutto ideologico degli «Italiani brava gente». In definitiva,
abbiamo tre categorie nell’ambito del proletariato di una nazione come
l’Italia: i lavoratori autoctoni, i lavoratori europei regolarmente sul
territorio, che finiscono nel lavoro nero, e i lavoratori immigrati
extracomunitari, nelle peggiori condizioni di caporalato mafioso. Il problema,
o la patata bollente, è quello di gestire l’immigrazione, non della migliore o
peggiore integrazione culturale. E quest’ultima non è affatto un antidoto
all’odio e al pregiudizio bensì un crogiuolo di elementi di discriminazione
fino al razzismo, che è invece utile a scongiurare l’unità tra lavoratori nella
lotta comune, unico vero fattore d’integrazione, mettendoli gli uni contro gli
altri e a ricattare gli immigrati come si faceva ai tempi di Sacco e Vanzetti,
per indebolirne la forza rivendicativa. La faccia tosta dei governanti italiani
d’ogni bandiera è tale da pretendere di convincerci che, incapaci come sono di
governare qualunque processo e di mettersi d’accordo tra di loro anche per
sciocchezze di poco conto, riescano a governare processi strutturali sottoposti
a dinamiche geopolitiche e geostrategiche più grandi di loro che solo un
governo unico mondiale potrebbe, non senza difficoltà, gestire.
Quel che
accomuna tutti i progetti e modelli non ha nulla a che fare con la millantata
integrazione culturale. Si tratta sempre di un insieme di misure di volta in
volta (ma anche insieme) espulsive e attrattive, regolate dal fabbisogno di
manodopera di importazione basato su meccanismi di determinazione annuale di
quote di ingressi per «motivi di lavoro» e CIE (Centri di Identificazione ed
Espulsione) e CPT (Centri di Permanenza Temporanea). Naturalmente gli italiani,
brava gente!, chiamano questi veri e propri campi di concentramento con
l’eufemismo «centri di accoglienza». Ma sottolineo che lo scopo è di pilotare
le quote di manodopera in base ai flussi in entrata e in uscita dai cicli
produttivi, su cui nessuno può farci nulla per via delle conseguenze
imprevedibili che mettono continuamente in crisi modelli e provvedimenti.
Infatti in Italia le comunità prevalenti erano, fino a qualche tempo fa, quelle
marocchina, albanese, filippina, romena.
Si pensi ai
romeni: 22.000 imprese italiane operano in Romania («dando lavoro» a 800.000
persone). Con l’ingresso della Romania nell’UE, nel 2007, questa situazione
diventa a rischio: in patria i romeni prendevano dalle imprese 200 € al mese,
allora per loro diventava meglio migrare in Italia o in Spagna. Quindi, in
questo caso, il processo è sfuggito un po’ di mano. Ed ecco che le imprese
italiane in Romania spingono per farli ritornare lì. È da questa spinta che è
nata la pressione bestiale nei confronti dei romeni: la campagna mediatica,
davvero massiccia, contro la comunità romena è stata determinata anche dalla
volontà degli imprenditori italiani che operano in quel paese. In Italia il
gioco è al ricatto di mettere una comunità contro l’altra e si è assistito a campagne
mirate prima contro i marocchini, poi contro gli albanesi, per arrivare
all’attacco ancora contro i romeni (chi sa chi si ricorda del caso di Ion
Cazacu (5), bruciato vivo con la benzina). Sono le comunità più presenti che vengono
criminalizzate, per ricattare meglio un settore di manodopera. Oggi, il datore
di lavoro che assume un romeno, può fargli pesare il clima pesante che c’è nei
confronti della sua comunità, può fargli credere che gli sta facendo quasi un
favore.
Sul
problema dei maghrebini, esploso con le lotte nella logistica, non mi soffermo
perché è la vera novità di questi due anni ed è in corso, e merita più attenta
analisi.
Ma torniamo
alla questione culturale, per concludere.
Oggi, ancor
più che in passato, quello culturale è un processo storico mondiale ben più ampio
di una cultura unica, sia esso impersonato dall’eurocentrismo o da altra
visione ugualmente etnocentrica. Questa realtà, precedente all’ascesa
occidentale, è ignorata sia dagli eurocentrici che dai relativisti del
multiculturalismo contemporaneo. Si tratta di saper riconoscere nella storia
mondiale un dinamismo nel quale progresso, osmosi e sincretismo interculturale
sono cose che esistono realmente, e si fanno beffe dei modelli costruiti a
tavolino.
Un altro
dogma accarezzato dal relativismo multi culturalista pretende che l’ascesa e
l’egemonia globale della cultura occidentale nella storia moderna si appoggi
esclusivamente sulla forza militare. Ora, quella dello «scontro di civiltà» è
una fanfaluca razzista buona solo per le magliette di Calderoli e soci (6). La storia, se seriamente intesa, ammonisce che la conquista culturale del
vincitore succede invariabilmente alla conquista militare e che l’egemonia
culturale evolve spesso in un senso opposto alla superiorità militare. Ne
presero atto i romani quando dicevano che «Grecia
capta ferum victorem coepit et artes intulit agresti Latio». Nell’Impero
romano, ha una grande rilevanza lo schiavismo, che si lega ad un tipo speciale
di immigrazione, determinato dalle vicende belliche. Una guerra vinta, poniamo,
a 2.000 km di distanza, portava ad uno spostamento coatto di tantissime persone
verso dove serviva la manodopera. Gli schiavi, per quanto negati nella loro
umanità, portavano comunque con sé una cultura: abitudini, stili di vita, modi
di mangiare che si diffondevano nei paesi dove venivano sfruttati. D’altronde i
barbari vincitori han finito per integrarsi nella civiltà romana con importanti
apporti generando una sintesi superiore. Quando subentra il feudalesimo, la
migrazione continua, mentre è in germe il capitalismo, che riceve una spinta
dalle conquiste geografiche. Lo storico Donald Lach cominciava la sua
monumentale opera in molti volumi, dal titolo significativo L’Asia nella formazione dell’Europa, con
questa dichiarazione: «Si è spesso riconosciuto che la polvere da sparo, la
stampa e la bussola erano indispensabili al progresso dell’Europa. Meno sovente
si riconosce che nessuna di queste
invenzioni era europea». Le invasioni della Spagna musulmana da parte degli
Almoravidi e degli Almohadi del nord Africa (secoli 11° e 12°) culminarono in
modo analogo nell’integrazione degli invasori nella cultura urbana sofisticata
che essi avevano conquistata; di fatto, il grande storico arabo Ibn Khaldun
costruì la sua teoria della storia
universale su questo ciclo della conquista nomade e del relativo assorbimento
da parte dei conquistatori.
(Naturalmente,
Calderoli, Berlusconi e Fini manco sanno dove sta di casa Ibn Khaldun!).
Quanto
meno, i multiculturalisti ed eurocentrici dovrebbero spiegarci i motivi della
convergenza, piuttosto singolare, della supremazia militare e dell’egemonia
culturale dell’Occidente tra i secoli 16° e 19° che di fatto costituisce la
«differenza» rispetto alla storia mondiale.
Nella
cornice della storia mondiale, la questione della supremazia economica e
tecnologica recente del Giappone già mette in discussione l’ideologia degli
«uomini bianchi europei morti» eretta a ideologia dominante del nostro tempo.
Il fatto che l’Asia rappresenti, in maniera indiscutibile, la zona capitalista
più dinamica del mondo nel corso di questi ultimi quattro decenni non turba
minimamente la mentalità multi culturalista ed eurocentrica, e, fra l’altro,
essa appare profondamente annoiata dalle questioni economiche e tecniche che
non possono collegarsi alla differenza culturale.
Infine, i
corollari razzisti della visione eurocentrica gravitante sull’uomo bianco ci
presentano i valori associati all’accumulazione capitalistica intensiva (aumento
della produttività realizzato con forte aumento di capitale fisso rispetto al
capitale variabile) come un fenomeno «da uomo bianco», dimenticando che proprio
i «non bianchi» (Giapponesi e Coreani, per esempio) sono quelli che oggi
incarnano questi valori con più fervore della gran parte dei «bianchi». Non è
neppure un caso che i multiculturalisti e i loro reggicoda nei media commentano
in dettaglio le lotte delle donne andine o eritree contro l’imperialismo e
l’oppressione sessista, ma tacciono sui grandi movimenti di scioperi a
ripetizione dei lavoratori coreani che registrano il sollevamento più
importante dell’ultimo decennio. Né si accorgono che i facchini nordafricani
stanno riportando una primavera di lotte e di organizzazione che il movimento
operaio italiano sembra aver dimenticato. Non capiscono, in definitiva, che, in
qualche modo, da che un paese del Terzo mondo si industrializza, esso cessa di
essere «differente».
In
conclusione: L’integrazione multiculturale e interculturale è un’arma spuntata
contro l’odio e il pregiudizio, e più spesso è la maniera migliore per
fomentarli. E in più, essa occulta la radice del problema. E il problema sta
nel sistema complessivo di sfruttamento del lavoro. Dove il capitale separa, le
lotte, e solo quelle, aprono alla costruzione di ciò che è comune, superano
barriere razziali e nazionali, producono un potente processo di protagonismo e
di soggettivazione resistente e soprattutto vincono. La lotta per la «dignità
sul lavoro» non è elusiva retorica, è insieme resistenza e liberazione dello
sfruttamento: un lavoratore ha spiegato durante un’assemblea che in arabo la
parola dignità ha la stessa radice di
resistenza, insurrezione, rivolta. Uno di questi lavoratori si chiama Arafat e
fino a domani è a Lampedusa per un festival dei migranti dove ha improvvisato
una manifestazione per rivendicare il rifiuto a farsi prendere le impronte
digitali perché tale atto li avrebbe condannati, qualora fossero stati presi in
altri paesi europei, ad essere rispediti in Italia perché è da qui che era
avvenuta la loro identificazione (Se non li vogliono all’interno dei confini
italiani, né concedere loro l’asilo politico, perché prender loro le
impronte?). Nei mesi di lotta nella logistica, dall’Ikea alla SDA alla TNT alla
Granarolo e a tutto il settore delle cooperative sono emersi quadri militanti
capaci di elaborazione politica e gestione della piazza. Nello stesso tempo si
sono determinate forme di vita e momenti di socialità che hanno prodotto un
radicale salto di qualità nella vita di questi giovani lavoratori migranti. In
barba a tutte le retoriche posticce sull’integrazione, nella lotta sono state
costruite relazioni, pratiche e linguaggi comuni tra differenti figure sociali
e del lavoro a cui nessuno vuole più rinunciare.
Inoltre, la
politica della cosiddetta integrazione (o incorporazione, o assimilazione, o
criminalizzazione ecc., in tutte le sue varianti, in ultima analisi) si
accompagna di norma e ovunque con una complementare politica sicuritaria, ossia
con un uso ed abuso della forza anche militare della legge e dell’ordine in
funzione sia preventiva che repressiva, in definitiva di criminalizzazione. Il
caso Sacco e Vanzetti è un caso clamoroso di questa criminalizzazione. Non è questione
giuridica, ma strutturale, di sistema sociale, e se non cambia il sistema
sociale, i suoi esiti saranno sempre più perniciosi.
Quando si
affronta questo problema, conta non solo l’aspetto quantitativo statistico ma anche
quello qualitativo. Nel primo decennio del secolo scorso, Nicola Sacco non
avrebbe mai immaginato che oggi la Puglia potesse diventare una sorta di
America per tanti braccianti avventizi provenienti dall’Europa dell’est o dal
Maghreb e dal Mashreq. Neppure io lo avrei immaginato nel 1960, quando emigravo
da qui per Torino. Ora, prima di ogni elucubrazione teorica, lascio parlare i
fatti.
Note
______________________
(1) Cfr.
il mio Gemeinweswn o Gemeinschaft? Decadenza
del capitalismo e regressione sociale, PonSinMor, Gassino Torinese, 2011.
(2) Il fenomeno è da me
descritto e documentato libro citato, Gemeinwsen
o Gemeishaft? Decadenza del capitalismo e regressione sociale, PonSinMor,
Gassino Torinese, 2011.
(3) Carlo Blangiardo, docente di Demografia alla università
Milano-Bicocca e curatore del rapporto Ismu.
(4) Dati da Gian
Antonio Stella, L’orda. Quando gli
albanesi eravamo noi; e dati Ismu (Iniziative
e studi sulla multietnicità).
(5) Piastrellista, quarantenne, ingegnere, bruciato vivo
dal padrone, l’imprenditore Cosimo Iannece, il 14 marzo 2000, a Gallarate
(Varese). Ion, con alcuni compagni di lavoro, aveva osato rivendicare il
«diritto» di poter essere assunto e smettere di lavorare in nero. Per tutta
risposta Iannece passò a trovarli, la sera stessa, e dopo una discussione gli
rovesciò addosso la bottiglia di benzina che si era portato appresso. Si venne
a sapere giorni dopo, mentre Cazacu era in ospedale tra la vita e la morte, il
90% del corpo coperto da ustioni. Morì dopo 33 giorni d’agonia. Iannece,
condannato a 30 anni per omicidio premeditato aggravato da futili motivi e
mezzi insidiosi, ottenne una diminuzione della pena perché non venne confermata
l’aggravante di «motivo abbietto».
(6) L’ironia delle cose vuole che il cognome Calderoli,
che dà dell’“orango” alla ministra Kyenge, sia legato al mestiere ambulante di
coloro i quali un tempo di paese in paese passavano a stagnare le pentole di
rame [“caldera” (pentola), che è all'origine del nome della tribù “nomade” dei
Kalderasha e del cognome, tipico Rom, Caldaras/Caldarar (Calderar)/Caldararu], esercitato
da zingari (rom); come nota la rubrica di “Tuttolibri La Stampa”, Parole in corso, curata da Gian Luigi Beccaria, che cita un saggio
di un noto dialettologo pisano, Franco
Fanciullo, per il quale, con un certo tasso di probabilità «il nostro
“signor Calderoli”, esponente di primo piano d'un partito che si segnala per le
misure repressive contro gli
extra-comunitari in generale e contro i rom in particolare, per paradossale
ironia della sorte potrebbe aver avuto un antenato zingaro». Url: http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2012/03/cognomi-calderoli-ha-un-avo-zingaro-di.html;
cfr. anche G.L. Beccaria, Il mare in un imbuto, Einaudi, 2010, pp.
177-178.
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