Dante Lepore, 18/03/2017 - Estratto in anteprima dal Cap. V del libro "Schiavitù del terzo millennio"
Vedi anche "Italia: si è arrivati a pisciarsi addosso per paura di perdere il lavoro"
Cap. V. Schiavi né vecchi né nuovi: «iSlaves» o «Schiavi 2.0». Nel regno della schiavitù supertecnologica
Confesso che ci ho impiegato un po’ a capire cosa fossero gli «iSlaves» e tutto ciò che è «2.0» o, come pure si scrive, «due punto zero». Poi sono dovuto entrare (virtualmente, s’intende!) in Foxconn e in Amazon… (chiamata pure la …4.0, ma qui mi fermo davvero!) ed ho capito la stupidità di questo linguaggio che, usato dalla propaganda, ancora una volta, evita, finché può, di contrassegnare gli elementi di questa figura sociale dello schiavo degli anni dal 2000.
Al punto in cui siamo giunti con l’analisi, sembra ormai evidente che, rispetto alle forme classiche del lavoro come le hanno conosciute nelle società occidentali le generazioni dei nostri nonni, nella seconda metà del secolo scorso (fase ancora espansiva del capitalismo sul territorio, mediante accumulazione di plusvalore assoluto), oggi la produzione, soprattutto manifatturiera, viene costantemente delocalizzata: il mercato delle merci e (meno!) della forza-lavoro si dilata fin là dove regnava l’autoconsumo, travalicando confini e barriere nazionali anche quando queste vengono munite di muri, tornelli, cordoli e filo spinato, e assolda nuovi schiavi del mercato, tracimando ad est, nelle zone ex coloniali dell’Asia e dell’altra sponda del Mediterraneo, sfruttando e schiavizzando come mai prima. Così, negli ultimi tempi, anche in occidente, la schiavitù va affiancandosi alle forme esistenti di lavoro salariato, tipico o a-tipico, o addirittura in forma di «socio di cooperativa», in allegra varietà anche multietnica, multiculturale, con altrettante forme di… salario.
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Nota di Attilio Folliero, Caracas 19/03/2017. Pubblico in anteprima, col consenso dell'autore, questo estratto del Cap. V del libro "Schiavitù del terzo millennio" per l'enorme importanza e l'attualità che riveste il tema trattato. Io vivo in Venezuela e qualcuno qua pensa che i lavoratori europei, statunitensi, i lavoratori dei paesi altamente sviluppati siano dei privilegiati, con orari di lavoro ridotti, tantissimi giorni di ferie, permessi retribuiti a non finire; pensano che le donne, quando rimangono incinte, abbiano diritto a non si sa bene quanti mesi di permesso retribuito prima e dopo il parto e lo stesso permesso viene esteso anche ai mariti. Insomma il lavoro nei paesi sviluppati è visto come una specie di hobby. Recentemente ho avuto una discussione in Facebook con qualcuno che ha postato tutti i benefici, o meglio i presunti benefici di cui godrebbero i lavoratori italiani. Questo libro interviene a fare chiarezza. Il lavoro salariato è sempre stato duro ed oggi, come mai nella storia, è ancora più duro. Con la caduta progressiva dei saggi di profitto, il capitale non fa altro che aumentare lo sfruttamento del proletariato, con turni di lavoro sempre più massacranti e riducendo e smantellando, col consenso dei politici di turno, quei diritti che i lavoratori avevano ottenuto con anni di dure lotte, scioperi, morti, feriti, denunce e condanne a lunghissime pene detentive.
Al punto in cui siamo giunti con l’analisi, sembra ormai evidente che, rispetto alle forme classiche del lavoro come le hanno conosciute nelle società occidentali le generazioni dei nostri nonni, nella seconda metà del secolo scorso (fase ancora espansiva del capitalismo sul territorio, mediante accumulazione di plusvalore assoluto), oggi la produzione, soprattutto manifatturiera, viene costantemente delocalizzata: il mercato delle merci e (meno!) della forza-lavoro si dilata fin là dove regnava l’autoconsumo, travalicando confini e barriere nazionali anche quando queste vengono munite di muri, tornelli, cordoli e filo spinato, e assolda nuovi schiavi del mercato, tracimando ad est, nelle zone ex coloniali dell’Asia e dell’altra sponda del Mediterraneo, sfruttando e schiavizzando come mai prima. Così, negli ultimi tempi, anche in occidente, la schiavitù va affiancandosi alle forme esistenti di lavoro salariato, tipico o a-tipico, o addirittura in forma di «socio di cooperativa», in allegra varietà anche multietnica, multiculturale, con altrettante forme di… salario.
1. Amazon, lo sfruttamento del tempo, «col sorriso»
La7 Attualità: Viaggio dentro il modello di lavoro Amazon
Dunque cominciamo dalla sorridente Amazon! (1). Ma è bene precisare subito che l’esempio di Amazon riguarda, specie in Italia, i grandi mega-snodi logistici come quelli della pianura padana (specie del piacentino dove ha sede la versione italiana di Amazon) che riforniscono l’e-commerce europeo. Con Amazon per i libri on line (ma non più solo quelli), e con H&M per i vestiti low cost , e ancora Esselunga, Zalando, GLS e simili. siamo nel cuore della logistica, dei grandi magazzini, degli hub, degli entrepôts, inferno mica tanto zuccherato dei facchini e facchine, dei picker e driver! Amazon, diventata in un battibaleno un gigante della vendita online al dettaglio («retailer»), colosso americano dell’e-commerce, del libro e non solo! E non solo del cartaceo ma pure elettronico, con un catalogo sterminato, spedizioni in 24 ore, imballaggi ecologici e tutto quanto di miracolo della digitalizzazione si può dare. Fondata nel 1994 da Jeff Bezos (oggi 19° miliardario del pianeta), uno che, dopo aver fondato Amazon in un garage, arriva a guadagnare 6 miliardi $ in 20 minuti, debuttava in Borsa nel 1997 e il fatturato si moltiplicava per 420, raggiungendo i 62 miliardi di dollari nel 2012, anno in cui in Francia, ove contava già su oltre un milione di visitatori al giorno e impiegava 4.000 dipendenti, assumeva 1.200 persone con contratto interinale per turni di 7 ore al giorno a 9,725 € lordi l’ora. Attraverso il mondo, 100.000 giovanissimi lavoratori si danno da fare all’interno di 89 entrepôts logistici la cui superficie cumulata totalizza intorno ai 7 milioni di metri quadrati (2).
In Europa, la sua testa di ponte è la Germania con 9 impianti logistici. La versione italiana ha aperto a ottobre 2011. Nel Piacentino il centro nevralgico è quello di Castel San Giovanni. Quello di Amazon è stato definito «sfruttamento col sorriso», stampato sopra il mito dell’informatizzazione del lavoro, della digitalizzazione, dell’user-friendly (facile da usare), del tutto a portata di click! Ma non è per niente così! Proprio dalla paradossale rapida ascesa di questo colosso, si comprende che senza lavoro di mani, piedi e cervello biologico, e non robotico, nessun profitto sarebbe mai possibile. Senza contare la vampirizzazione della propria clientela di piccoli commercianti librai che si affidano alla sua piattaforma Marketplace per commercializzare i propri prodotti, ma che alla fine son costretti a desistere e sparire, secondo la logica del pesce grosso che mangia il pesce piccolo. Il sindacato francese delle librerie ha infatti calcolato che, a pari volume d’affari, una libreria di quartiere genera 18 volte più impieghi lavorativi della vendita on line. Intendiamoci: non si vuol difendere qui l’occupazione falcidiata dei poveri librai, anzi, sotto alcuni aspetti il fatto che a svolgere certi lavori siano meno persone è pur sempre un vantaggio sociale. Per il solo anno 2012, l’Associazione dei librai americani (American Booksellers Association, ABA) valuta in 42 mila il numero di posti eliminati da Amazon nel settore: 10 milioni di dollari di volume d’affari per la multinazionale rappresenterebbero 33 soppressioni di posti di lavoro nella libreria di quartiere (3). Certo, lo specchio per le allodole (i clienti di Amazon) è la possibilità di acquistare… «con pochi click»… Ma, alla fine della fiera, senza il lavoro dei facchini, nulla di nulla sarebbe stato possibile (4). Anche perché a «marciare» è l’essere umano e il «passo di marcia», cioè il ritmo, è la prima cosa che gli operai devono imparare, e ovviamente il ritmo non è quello naturale ma quello delle esigenze quantitative di accumulazione. Lo stoccaggio, il carico e l’imballaggio di ogni prodotto è affidato alla fatica di chi ci lavora: mani che spostano, braccia che alzano e appunto gambe che trasportano. Nessuna creazione robotica. Nei suoi stabilimenti il massimo dell’informatica presente sono i tornelli dove si timbra il proprio badge, i carrelli e i ripetitori wifi che ci fissano dalle alte scaffalature su cui viene stipata la merce. Camminando in un hangar di Amazon, ci si accorge che l’unica macchina complessa che ci lavora è l’uomo, sì, proprio lui, il camminante su due gambe. Nel 2015, Amazon superava già Wal-Mart con i suoi 250 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. È così diventata leader nel settore delle vendite on line, anche grazie all’efficienza del suo sistema di distribuzione, basato, paradossalmente, sul cosiddetto «accumulo caotico»: quando i prodotti arrivano dalle rispettive fabbriche nei depositi, vengono posizionati sul primo posto disponibile negli scaffali. Il resto del «lavoro» sembra compierlo il general intellect del capitale: ognuno di questi scaffali è contrassegnato da un codice a barre che, una volta riempito, viene «legato» al codice a barre del pezzo che ospita. In questo modo, lo staff del centro può recuperare il prodotto ordinato da un cliente con una veloce ricerca sul database.
1.1 Un capitale avido anche del tempo di vita
In determinati periodi dell’anno – ad es. a ridosso di natale – il «flusso del materiale» è talmente rapido da non consentire nemmeno la disposizione della merce sugli scaffali. In questi casi i beni finiscono in «aree di ammasso» a cui lo staff attinge direttamente dopo un preciso ordine (5). Nel 2016 gli acquisti digitali di beni materiali, in Italia, sono stati più di 120 milioni: crescono del 30 per cento all’anno, a 75 € in media a scontrino (6). Amazon non ha mai smesso di crescere a ritmi iper-accellerati. Il suo sistema – che vanta un fatturato annuale di 34 miliardi di dollari – deve per forza di cose essere infallibile, vista la mole di clienti da soddisfare: circa 19,5 milioni al giorno (7). F. Sironi riferisce che «un minuto sono 228 consegne, che fanno 13.600 all’ora, 328 mila e 700 al giorno. Nel 2016 gli acquisti digitali di beni materiali, in Italia, sono stati più di 120 milioni» (8). E l’Italia sembra essere, nel 2017, il paese in cui Amazon, chiamata la fabbrica 4.0, gode il massimo di riconoscenza presso i suoi dipendenti per le solite millantate «opportunità» di impiego lavorativo (9). Certamente, ci deve essere una ragione se a Castel S. Giovanni, periferia di Piacenza, lavorano a pieno regime circa 3000 persone tra diretti e interinali, di cui 300 alessandrini interinali, somministrati, che si sbobbano per di più 90 km al giorno, come fossero eroi delle Termopili (come qualcuno li ha paragonati), e che, come l’alessandrino Alessandro, orgogliosamente vantano: diritti completamente rispettati, stesso stipendio netto dei dipendenti a tempo indeterminato, con possibilità anche di fare straordinari. Abbiamo persino la navetta gratuita (o meglio pagata dall’agenzia) che ci porta avanti e indietro, dal cimitero di Spinetta all’hub di Castel San Giovanni.… Amazon vince 4 a zero su tutta la linea! E deve pur esserci una ragione se un lavoratore di questo genere risponde divertito alla solita domanda del giornalista: «qui, Alessandro, girano altre voci su cui giova chiederle conferma: timer che misura le performances di ognuno, con voce in auricolare che ti dice ‘sei in ritardo di tot minuti’, impossibilità persino di andare a fare la pipì…»: Sì, certo, ci manca il sorvegliante con la frusta in mano e poi il film è perfetto. Guardi, io non sono mai stato così autonomo e indipendente in quel che faccio: è chiaro che tutto è codificato, e quindi chi ha quel ruolo può verificare costantemente la produttività di ognuno: ma questo succede ovunque, sei lì per produrre, non per rilassarti o giocare. I bagni sono pulitissimi, confermo: ma ci puoi andare quando vuoi, e ci mancherebbe che non fosse così. Chiaro che non puoi passare due ore in bagno, imboscato. Ma se ci sono realtà in cui questo succede, sono quelle probabilmente che non funzionano, non Amazon…
Nel magazzino di Montélimar (dipartimento della Drôme), un hangar di 36 mila metri quadrati, il «picker» (equivalente del facchino, l’operaio «raccoglitore»), percorre a piedi la media di 20-25 km ogni giorno per andare a cercare i prodotti (libri, cd e ogni altro oggetto venduto su Amazon), caricarli su carrelli e portarli al «packer» (l’«imballatore»). Turni di notte dalle 21,30 alle 04,50. Ogni suo gesto è estremamente codificato, dal modo di manipolare i carrelli (la marcia indietro è vietata!) a come impilare gli articoli (per dimensioni, con il codice a barre verso il basso, ecc.). È munito, come tutti i dipendenti, di uno «sbirro elettronico», uno scanner con sistema GPS -wifi che controlla in tempo reale spostamenti, velocità dei gesti ed eventuali tempi di pausa, e permette al capo sorvegliante di avere la posizione precisa di ogni dipendente, il suo ritmo di lavoro e la sua produttività, il tutto calcolato al secondo.
La Amazon tedesca, poi, porta al parossismo l’ossessione del controllo abbinata al terrore dei furti da parte dei dipendenti, servendosi di guardie appartenenti a gruppi neonazisti per disciplinare i 5.000 e passa lavoratori stranieri che impiega nei centri di imballaggio e distribuzione tedeschi. Quanto questo aspetto di dispotismo e di vero e proprio terrorismo psicologico abbia a che fare col «sorridente» libero scambio tra lavoratore salariato e management del capitale e quanto abbia a che fare con la sottomissione evoluta allo sfruttamento schiavista, ormai dovrebbe essere chiaro. Peraltro tali guardie, vestite con uniformi nere, con capi vestiario rituali nei gruppi neonazisti, e stivali e acconciature da militari, vengono mandate negli ostelli dove vivono i lavoratori provenienti da tutta Europa per «controllarli» e intimorirli. La compagnia di sicurezza della Amazon si chiama HESS Security e, secondo quanto suggerisce la TV tedesca, il nome sarebbe un riferimento a Rudolf Hess, noto deputato di Adolf Hitler. Il direttore della HESS Security, inoltre, sarebbe in buoni rapporti con dei noti neo-nazisti e teppisti tedeschi (10). Le guardie sono una presenza costante e perquisiscono i lavoratori fin dentro i loro alloggi/dormitori per vedere addirittura se «hanno rubato delle ciambelle a colazione». Una donna, Maria, afferma di essere stata cacciata dall’abitazione che divideva con altri cinque dipendenti per aver… appeso la biancheria ad asciugare sui termosifoni a muro. Dulcis in fundo, a fine turno al facchino viene consegnato un rapporto finale di produttività. Ogni gesto è definito.
Il minimo tabellare di cottimo cui un picker è tenuto è di 130 articoli l’ora, altissimo, visto che inizialmente non si riesce a caricare più di 50 oggetti. «Vengono dolori di schiena, al collo, ai polsi, le gambe si pietrificano. Se gli obiettivi non sono tenuti, si viene sanzionati. Solo i dipendenti più produttivi possono sperare in un contratto a tempo indeterminato» (11). Nulla di nuovo: da sempre i facchini incorrono in questa endemica malattia professionale della «schiena a pezzi». L’autore di questo libro è figlio di un facchino dalla schiena a pezzi per i quintali scaricati dal «lambré», Torino anni ‘70, che chiedeva sempre di fargli frizioni di olio canforato sulla schiena: morì rincitrullito dal male, trascinando le gambe, ormai consumato.
Abbiamo già visto nel II capitolo come le punizioni sostituiscono la frusta dello schiavista antico, senza che ciò significhi meno sfruttamento. Tutt’altro! Qui lo sfruttamento è tirato al parossismo, arrivando a logorare non solo il corpo ma anche lo spirito, con buona pace del giovane alessandrino di cui sopra orgoglioso di Amazon. Tali condizioni di lavoro e di assunzione dei dipendenti sono inoltre di fatto sfavorevoli alle donne. La maternità è considerata un ostacolo alla carriera, per alcune delle dipendenti, perché… sottrae tempo al lavoro. In generale, comunque, non c’è un criterio d’assunzione identico per i diversi paesi. Mentre in Germania (12), per es., lavorano in maggioranza giovani di diverse nazionalità (per lo più greci, spagnoli, portoghesi e turchi) e c’è una forte richiesta di manodopera (9 stabilimenti), in Francia la maggior parte dei lavoratori sono giovani francesi che hanno tra i 25 e i 30 anni; a Montélimar, gli emigrati sono pochi (e per lo più maghrebini). Secondo un’indagine condotta dal «New York Times», sono molti i casi di persone costrette a lasciare il lavoro o lasciate andare via dall’azienda perché non le dedicavano almeno 80 ore di lavoro alla settimana; o perché, per problemi di salute, sono state costrette a rallentare temporaneamente il ritmo di lavoro (13).
Potrebbe sembrare assurdo, o sarcastico, per chi dimentica che nell’ultimo decennio del secolo scorso in vari paesi europei era all’ordine del giorno la settimana lavorativa di 40 e talvolta di 35 ore lavorative! Nel suo reportage, l’«infiltrato» in Amazon, per studiarne l’organizzazione del lavoro, J.-B. Malet (figura di ricercatore, quando non di militante, che d’ora in poi troveremo spesso, anche dove vige il regime del caporalato delle campagne) afferma che oltre alle pressioni psicologiche, i lavoratori non hanno per esempio delle cadenze imposte: non gli si domanda di rispettare un preciso tasso di produttività. Peggio ancora: ogni giorno devono essere più veloci di quello prima. Si fa in modo che i lavoratori siano in concorrenza tra di loro. Sono portati a denunciarsi l’un l’altro se, per esempio, parlano invece di lavorare (14).
Tutti i mezzi sono dunque buoni per spillare tempo di lavoro intensivo, secondo il criterio basilare di accelerare i ritmi per ridurre gli intervalli di tempo tra l’ordine del cliente e la spedizione, anche mediante altoparlanti con musica a tutto volume: Au moment du «Q4», les managers diffusent de la musique à plein volume dans l’entrepôt pour nous exciter, raconte Mme Rudolf. Un jour, pendant les fêtes, ils nous avaient mis du hard-rock pour nous faire travailler plus vite. C’était tellement fort que j’en avais mal à la tête, cela me donnait des palpitations. Quand j’ai demandé au manager de baisser le volume, il s’est moqué de moi parce que j’avais plus de 50 ans, en me disant qu’ici nous étions une entreprise de jeunes. Moi, j’étais senior, et on me demandait d’avoir la même productivité au picking qu’un jeune de 25 ans. Mais après le décès de mon mari, je n’avais pas le choix, il me fallait accepter ce travail (15).
Persino la Bbc è stata costretta a lanciare una allarme: la salute psico-fisica dei magazzinieri di Amazon nel Regno Unito sarebbe a rischio (16). E naturalmente gli scioperi seguiti in Germania nei centri logistici di Lipsia e Bad Hersfeld. «Ho visto tutte le persone che hanno lavorato con me piangere almeno una volta», ricostruisce una ex dipendente, laureata e divenuta scrittrice, riferendosi a riunioni lunghe e difficili (17). Le testimonianze riportate nell’inchiesta del «New York Times» registrano turni sfiancanti, all’insegna della velocità, mancanza di aria condizionata (le ambulanze aspettano all’esterno per portare via chi collassa) con oltre 40° in Francia con donne che cadevano a terra con la faccia viola, e in Germania dove invece mancava il riscaldamento, con gli impiegati costretti a mandare e-mail anche in orari notturni o obbligati a fare la spia sulle performance degli altri colleghi, mentre durante i colloqui di assunzione sono obbligati a firmare una clausola di segretezza, illegale, secondo cui non hanno il diritto di parlare a nessuno, nemmeno alla propria famiglia, di quello che accadrà sul luogo di lavoro (18). Serena Frontino (19), 22 anni, cappotto beige, contratto part time, 7,4€ l’ora: ad aprile più della metà della sua busta paga non arrivava dall’ordinario, quanto da premi di produzione, extra e integrazioni. Il suo è un part-time elastico. Sui contributi versati, sui diritti, sull’agenda, Serena afferma: «Ci mandano l’orario del giorno dopo solo il pomeriggio o la sera prima, via sms», e aggiunge: «Seguivo un corso di teatro, la mia passione, ma ho dovuto abbandonare. Perché non posso prevedere a che ora uscirò». Le donne sono pressate a migliorare le loro prestazioni, anche quando malate di cancro. «Ho subito un aborto, è stato uno degli eventi più devastanti della mia vita. Ma mi hanno messa nel programma per migliorare le prestazioni, per assicurarsi che la mia attenzione continuasse ad essere focalizzata sul lavoro», ha raccontato un’impiegata (20). Amazon ha pensato di monitorare finanche il cosiddetto «tempo libero» dei suoi dipendenti: perfino i minuti impiegati in bagno vengono annotati. Un giorno o due prima delle riunioni, ricevono una documentazione di 50-60 pagine, e vengono interrogati a caso sui migliaia di numeri che vi sono contenuti. Spiegazioni come «non sono sicuro» o «controllo e ti dico» non sono ritenute accettabili, e molti manager le liquidano come… stupide.
(Dante Lepore, Estratto in anteprima dal cap. V del libro Schiavitù del terzo millennio, 18/marzo 2017)
Note
(1) Dati in : https://www.searchenginejournal.com/...
(2) Il dato è da JEAN-BAPTISTE MALET, Amazon, l’envers de l’écran . Enquête dans les entrepôts du commerce en ligne in «Le Monde Diplomatique», nov. 2013, pp. 1, 20 et 21
(3) Ivi.
(4) SAMIR HASSAN, Amazon, lo sfruttamento col sorriso, in «Il manifesto», 13.12.2013
(5) PIER LUIGI PISA, Amazon: cosa c’è dietro un click, viaggio nella compagnia di commercio elettronico statunitense, in «L'Huffington Post», 03/12/2012
(6) FRANCESCA SIRONI, Come vive la classe operaia on line, Espresso-Repubblica, 16 novembre 2016, in http://espresso.repubblica.it/inchi...
(7) La fonte (del 2012) è di P. L. PISA cit., ma può essere sicuramente in difetto, rispetto ad altre fonti coeve e successive.
(8) F. SIRONI, op. cit.
(9) ETTORE GRASSANO, «Amazon? Vi racconto cos’è davvero!». Un alessandrino in trasferta a Piacenza: «Da noi sempre sordi e ciechi di fronte alle opportunità», in http://mag.corriereal.info/wordpres....
(10) ANTONIA LATERZA, Amazon tedesca usa guardie neo-naziste per intimidire i suoi dipendenti stranieri, in «L'Huffington Post», 15/02/2013 .
(11) NICOLA DI TURI, Amazon, un giornalista francese infiltrato nei magazzini. Tra contratti precari, turni massacranti e controlli a distanza, «L'Huffington Post», 12/05/2013, recensione al libro di JEAN BAPTISTE MALET, En amazonie. Infiltré dans le «meilleur del mondes, Fayard, Paris 2013.
(12) SAMIR HASSAN, Amazon, lo sfruttamento col sorriso, cit.
(13) JODI KANTOR and DAVID STREITFELD, Inside Amazon: Wrestling Big Ideas in a Bruising Workplace, Aug., 15, 2015. http://www.nytimes.com/2015/08/16/t...
(14) dalla testimonianza di JEAN-BAPTISTE MALET, Amazon, l’envers de l’écran. Enquête dans les entrepôts du commerce en ligne, «Le Monde Diplomatique», nov. 2013.
(15) JEAN-BAPTISTE MALET, Amazon…. cit. [Al momento del «Q4», i capi diffondono musica a tutto volume nel magazzino per eccitarci, racconta la signora Rudolf. Un giorno, durante le feste, ci avevano messo dell’hard-rock per farci lavorare più svelto. Era così forte che ne avevo mal di testa, ciò mi causava palpitazioni. Quando ho chiesto al capo di abbassare il volume, mi ha preso in giro perché avevo oltre 50 anni, dicendomi che qui eravamo un’impresa di giovani. Io ero anziano, e mi si chiedeva di avere la stessa produttività al massimo che un giovane di 25 anni. Ma dopo la morte di mio marito, non avevo scelta, era per me necessario accettare quel lavoro.]
(16) Amazon workers face ‘increased risk of mental illness’, 25.nov.2013, in http://www.bbc.com/news/business-25...
(17) NICHOLE GRACELY, Meglio senzatetto che lavorare da Amazon, in «L’Huffington Post», 01/12/2014.
(18) Testimonianza di J.-B MALET, cit.
(19) F. SIRONI, op. cit.
(20) ILARIA BETTI, Amazon, le dure condizioni di lavoro nell'inchiesta del New York Times, «L'Huffington Post», 17.08.2015.
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