Dante Lepore, 11/03/2017
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Quel che colpisce, in questo romanzo, è la sintonia che l’Autore riesce a creare tra il lettore e i suoi personaggi, esattamente tutti i personaggi. E s’intuisce anche bene che questa sintonia è coltivata da un atteggiamento dell’Autore fatto di propensione verso di essi.
Può apparire singolare che non ci sia una predilezione da parte di Gončarov per questo o quel personaggio, ma alla fine, dopo che li hai passati tutti in rassegna, pur nella loro profonda differenza e irripetibilità individuale, non ci sono nette assoluzioni o altrettanto nette condanne e, per lo più, per ognuno c’è sempre un angolo di simpatia. Persino in personaggi tra i più sordidi come il suo servo recalcitrante ma fedele Zachar ci sono espressioni di bonomia che alla fine li rendono simpatici.
Indubbiamente, il personaggio più ben lumeggiato è Oblomov, e non a caso su di lui è stato coniato, a partire dallo stesso Autore, quasi fosse una categoria psicologica universale, il termine «oblomovismo». Ma neppure Olga, di cui Oblomov s’innamora perdutamente ma che non sposa perché sposarsi significa il contrario della sua indolenza, tanto meno l’amico Stolz e la padrona di casa innamorata che finirà per sposarlo, Agafia Matvieevna, sono personaggi trascurati, oltre Zachar.
Ci sono personaggi ripugnanti opportunisti come Tarantiev e Ivan Matieievic, ma non a caso non hanno vita interiore, sono semplici comparse, nella loro animalità sono piuttosto cose, fan parte della realtà oggettiva, vera e propria antitesi superattivista all’indolenza pensosa di Oblomov. I personaggi hanno una loro «storia», un’evoluzione, e, per quanto riguarda Oblomov, una vera e propria parabola, se non un circolo. Si tratta di un percorso educativo, una sorta di educazione sentimentale anche se in una originale forma di bildungsroman sui generis. Quel che di buono c’è in Oblomov sembra agire sugli altri personaggi vivificandoli. Olga cresce e diventa adulta grazie a lui, al punto che sarà necessario l’intervento di Stolz, che la sposerà, per farglielo capire. Né privo di influsso sembra sullo stesso Stolz.
Ma l’«oblomovismo» cosa è? Il romanzo è del 1859. L’Europa ripiegava i suoi ardori romantici verso l’era decadente. I critici si accaniscono a farne alcunché di squisitamente «russo». Persino Dobroliubov, autore del celeberrimo saggio Che cos’è l’oblomovismo, che più di tutti sembra coglierne la quintessenza, lo colloca in una esperienza «russa». E forse è inevitabile che dal tramonto di un’epoca senza tempo come quella secolare staticità della società autocratica ci fossero migliori condizioni per osservare e descrivere un fenomeno così difficile da isolare e delineare nel dinamismo della nostra civiltà borghese.
Oblomov sembra vivere in una dimensione del tempo per nulla reale, quasi fiabesca, astratta, senza tempo, nella quale tutto si ripete e nulla ha uno sviluppo, alla stregua di certe categorie del pensiero, come un iperuranio delle idee. Non a caso, la sottile violenza esercitata sul carattere di Oblomov ad impedirne la crescita interiore avviene proprio nell’età dello sviluppo, ad opera di un’educazione tipica di una società statica, quella dell’Oblomovka, con le sue 300 anime, ove tutto si è fermato, anche le cose. E a questo tempo senza tempo sembra tornare Oblomov come in una sorta di anticipazione letteraria di quello che sarà l’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche, ad ogni svolta e sollecitazione a cambiare, ad ogni situazione che richieda sforzo, impegno, coraggio o accelerazione.
Quando muore, l’Autore lo paragona all’orologio che si ferma perché ci si è dimenticato di dargli la corda. Ecco: Oblomov è dunque un orologio, ma un curioso orologio che ripete il tempo sempre uguale e perciò eterno. Pur essendo, storicamente, la personificazione dell’accidia, dell’indolenza, della non-vita, della pigrizia, della legge del minimo o nullo sforzo, a volte l’Autore sembra assegnare un valore positivo a questo carattere, a questo atteggiamento, come se impersonasse l’universale e l’assoluto di fronte al quale ogni nostra agitazione, attività, preoccupazione e miseria, può generare soltanto ironia. C’è dell’ironia in questo confronto.
L’Autore sembra usare l’oblomovismo non come categoria negativa, per certi versi indulge persino alla minuzia della sua descrizione, per farcene cogliere la più intima corda, ma poi arriva instancabile il riscatto di esso quando, al suo confronto vengono descritti gli atteggiamenti borghesi che gli si contrappongono. Forse sta qui il limite dell’oblomovismo: il non riuscire ad intravedere, come alternativa ad esso, se non la limitatezza dell’uomo borghese che sta invadendo anche la Russia, affetti dal tipico razionalismo della divisione del lavoro che ne fa delle macchine da guadagno come appunto i Tarantiev e gli Ivan Matveevic e a cui non sembra sottrarsi neppure un certo Stolz, non a caso tedesco.
Non ci sono altri strati sociali descritti nel romanzo all’infuori di decadenti feudatari e loro servi, di impiegati della macchina istituzionale zarista e trafficanti minuti. Non ci sono operai e neppure contadini. Qualche fattore furbo. Niente altro. Non c’è alternativa al nobile che muore se non nel borghese. E questo è determinante. Eppure non sembra esserci un vagheggiamento reazionario in Gončarov: l’oblomovismo non sembra l’espressione di una società in decadenza, sembra piuttosto la paralisi, a volte positiva, di fronte al nuovo, non sempre negativo, che avanza, ma un nuovo che annoia e sconcerta Oblomov.
Non si tratta, a mio avviso, di una satira del sistema di vita della nobiltà, alla Parini intendo, o almeno non sembra esserci l’intenzione di farla da parte dell’Autore. Tuttavia le conseguenze morali, psicologiche, intellettuali di una condizione materiale di esistenza condita da un sistema educativo che fin da bambino pone Oblomov in condizione di non addestrare le proprie capacità ad ottemperare ai bisogni più elementari in quanto c’è sempre qualcuno che lo fa per lui.
In questo, generalizzando, si ha un aspetto non propriamente «russo», né propriamente limitato alla classe «nobile», ma universalizzabile nella forma di tipo umano.
E bisognerebbe poi confrontare questa descrizione di una nobiltà nella sua fase decadente nel senso che dicevo di paralitica con quella dei tempi eroici della nobiltà tutta dedita all’esercizio militare, di ben altra temperie fisica e morale. Ma la nobiltà russa è anche una nobiltà sui generis, legata al dispotismo burocratico dell’autocrazia, molto diversa, anche nella forma assolutista, da quella occidentale.
Bisognerebbe fare il confronto con il «giovin signore» del Parini, che del resto era arcinoto già a Puskin, il cui personaggio, Oneghin, sembra inaugurare nella letteratura russa una specie di parabola di questo personaggio che sembra concludersi con Oblomov. Ma la shandra e l’oneghinismo non sono ancora l’oblomovismo. Quella degli Oblomov non era una grande nobiltà, la sua proprietà era media, le sue rendite non superavano i 10.000 rubli. I suoi sogni, quando, ancora bambino, c’erano, erano comunque quelli della grande nobiltà militare, artistica e letteraria-filosofica. Nel rapporto con Zachar, appare qualche tratto del classico rapporto hegeliano servo/padrone, ma non se ne ha affatto una dialettica di capovolgimento dei ruoli. Lo schiavo qui non si emancipa e resta nel suo sordido squallore. Tuttavia resta qualche elemento di superiorità d’ordine attivo in Zachar, che almeno, per quanti calci in faccia si prenda, qualcosa sa farla se il padrone dipende da lui in tutto e non ha alcuna autonomia. Altri personaggi, come il Rudin di Turgheniev, sembrano esprimere un’altra generazione, altri ideali, ma altrettanta incapacità pratica. Anche per questo diversi critici si accaniscono nelle sottolineature “russe” del fenomeno.
Ma quanti elementi possiamo trovare in comune, ad es., con il dandysmo, che è già fenomeno caratterizzante una borghesia in decadenza! E, se andiamo a studiare il fenomeno in altre epoche storiche, come nel basso impero romano o in generale nelle fasi di decadenza delle civiltà antiche, troveremo elementi di accidia e di incapacità pratica in quelle espressioni letterarie, utili per un raffronto. Sicuramente in Oblomov esiste molto di “russo”, ma paradossalmente l’ “oblomovismo” sembra travalicare i confini sia di una spiritualità tipicamente russa che quelli che ne limitano la configurazione a quella di una nobiltà ormai in via di spegnimento.
Credo che ogni forma di civiltà che manifesta elementi di stagnazione e di putrefazione, contenga elementi di oblomovismo. Una fauna umana e un ricco campionario di moderni Oblomov è possibile enuclearla da tanti ambienti soprattutto, ma non esclusivamente piccolo e medio borghesi di questo fine secolo che si prolunga nel terzo millennio in crisi planetaria. Per certi versi, gli alibi escogitati al nullismo pratico contingente e morale universale potrebbero apparire ancora più squallidi e sordidi che quelli di Oblomov.
Né sarebbe male confrontare i sogni mai messi in opera di Oblomov con quelli di tanti borghesucci italiani del nostro tempo. Basterebbe vedere un film di Nanni Moretti, o basta ascoltare le nostalgie ex sessantottine ed ex femministe. Ma questa è piccola borghesia. I borghesi, quelli una volta ruspanti, forse che si salvano? Il loro spettro è l’incertezza e l’assenza di stabilità, il non senso che paralizza, il lasciar fare al capitale fittizio, quello dei desideri, delle aspettative, del diritto alle rendite e dividendi possibilmente esentasse, insomma la propensione al parassitismo totale.
Gli storici hanno fatto accostamenti, soprattutto la “scuola sociologica”, tra le diverse condizioni psicologiche dell’era post-napoleonica, a proposito di spleen, ennui, angoscia kierkegaardiana e noia leopardiana. La shandra di Onieghin, che ha diverse gradazioni, e che è tradotta come “ipocondria”, da Puskin è detta anche “russa”. Egli la chiama anche skika, toska, in pratica noia e vuoto. In generale, tutte queste forme, che assumono una denominazione categoriale in quello che sarà definito il “male di vivere”, tipico dell’epoca decadente, hanno tuttavia connotazioni specifiche nei diversi personaggi e nei diversi autori. Non è da trascurare il fatto che l’intellighenzia russa è impregnata di cultura europea, e sotto certi aspetti è la frangia intellettuale più europeizzata di tutte. Il 1859, da questo punto di vista, è un anno cruciale. I fiori del male di Baudelaire sono di questa epoca e inaugurano la letteratura decadente. Non a caso il concetto di “spleen” vi è ripreso. (dl)
Ma l’«oblomovismo» cosa è? Il romanzo è del 1859. L’Europa ripiegava i suoi ardori romantici verso l’era decadente. I critici si accaniscono a farne alcunché di squisitamente «russo». Persino Dobroliubov, autore del celeberrimo saggio Che cos’è l’oblomovismo, che più di tutti sembra coglierne la quintessenza, lo colloca in una esperienza «russa». E forse è inevitabile che dal tramonto di un’epoca senza tempo come quella secolare staticità della società autocratica ci fossero migliori condizioni per osservare e descrivere un fenomeno così difficile da isolare e delineare nel dinamismo della nostra civiltà borghese.
Oblomov sembra vivere in una dimensione del tempo per nulla reale, quasi fiabesca, astratta, senza tempo, nella quale tutto si ripete e nulla ha uno sviluppo, alla stregua di certe categorie del pensiero, come un iperuranio delle idee. Non a caso, la sottile violenza esercitata sul carattere di Oblomov ad impedirne la crescita interiore avviene proprio nell’età dello sviluppo, ad opera di un’educazione tipica di una società statica, quella dell’Oblomovka, con le sue 300 anime, ove tutto si è fermato, anche le cose. E a questo tempo senza tempo sembra tornare Oblomov come in una sorta di anticipazione letteraria di quello che sarà l’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche, ad ogni svolta e sollecitazione a cambiare, ad ogni situazione che richieda sforzo, impegno, coraggio o accelerazione.
Quando muore, l’Autore lo paragona all’orologio che si ferma perché ci si è dimenticato di dargli la corda. Ecco: Oblomov è dunque un orologio, ma un curioso orologio che ripete il tempo sempre uguale e perciò eterno. Pur essendo, storicamente, la personificazione dell’accidia, dell’indolenza, della non-vita, della pigrizia, della legge del minimo o nullo sforzo, a volte l’Autore sembra assegnare un valore positivo a questo carattere, a questo atteggiamento, come se impersonasse l’universale e l’assoluto di fronte al quale ogni nostra agitazione, attività, preoccupazione e miseria, può generare soltanto ironia. C’è dell’ironia in questo confronto.
L’Autore sembra usare l’oblomovismo non come categoria negativa, per certi versi indulge persino alla minuzia della sua descrizione, per farcene cogliere la più intima corda, ma poi arriva instancabile il riscatto di esso quando, al suo confronto vengono descritti gli atteggiamenti borghesi che gli si contrappongono. Forse sta qui il limite dell’oblomovismo: il non riuscire ad intravedere, come alternativa ad esso, se non la limitatezza dell’uomo borghese che sta invadendo anche la Russia, affetti dal tipico razionalismo della divisione del lavoro che ne fa delle macchine da guadagno come appunto i Tarantiev e gli Ivan Matveevic e a cui non sembra sottrarsi neppure un certo Stolz, non a caso tedesco.
Non ci sono altri strati sociali descritti nel romanzo all’infuori di decadenti feudatari e loro servi, di impiegati della macchina istituzionale zarista e trafficanti minuti. Non ci sono operai e neppure contadini. Qualche fattore furbo. Niente altro. Non c’è alternativa al nobile che muore se non nel borghese. E questo è determinante. Eppure non sembra esserci un vagheggiamento reazionario in Gončarov: l’oblomovismo non sembra l’espressione di una società in decadenza, sembra piuttosto la paralisi, a volte positiva, di fronte al nuovo, non sempre negativo, che avanza, ma un nuovo che annoia e sconcerta Oblomov.
Non si tratta, a mio avviso, di una satira del sistema di vita della nobiltà, alla Parini intendo, o almeno non sembra esserci l’intenzione di farla da parte dell’Autore. Tuttavia le conseguenze morali, psicologiche, intellettuali di una condizione materiale di esistenza condita da un sistema educativo che fin da bambino pone Oblomov in condizione di non addestrare le proprie capacità ad ottemperare ai bisogni più elementari in quanto c’è sempre qualcuno che lo fa per lui.
In questo, generalizzando, si ha un aspetto non propriamente «russo», né propriamente limitato alla classe «nobile», ma universalizzabile nella forma di tipo umano.
E bisognerebbe poi confrontare questa descrizione di una nobiltà nella sua fase decadente nel senso che dicevo di paralitica con quella dei tempi eroici della nobiltà tutta dedita all’esercizio militare, di ben altra temperie fisica e morale. Ma la nobiltà russa è anche una nobiltà sui generis, legata al dispotismo burocratico dell’autocrazia, molto diversa, anche nella forma assolutista, da quella occidentale.
Bisognerebbe fare il confronto con il «giovin signore» del Parini, che del resto era arcinoto già a Puskin, il cui personaggio, Oneghin, sembra inaugurare nella letteratura russa una specie di parabola di questo personaggio che sembra concludersi con Oblomov. Ma la shandra e l’oneghinismo non sono ancora l’oblomovismo. Quella degli Oblomov non era una grande nobiltà, la sua proprietà era media, le sue rendite non superavano i 10.000 rubli. I suoi sogni, quando, ancora bambino, c’erano, erano comunque quelli della grande nobiltà militare, artistica e letteraria-filosofica. Nel rapporto con Zachar, appare qualche tratto del classico rapporto hegeliano servo/padrone, ma non se ne ha affatto una dialettica di capovolgimento dei ruoli. Lo schiavo qui non si emancipa e resta nel suo sordido squallore. Tuttavia resta qualche elemento di superiorità d’ordine attivo in Zachar, che almeno, per quanti calci in faccia si prenda, qualcosa sa farla se il padrone dipende da lui in tutto e non ha alcuna autonomia. Altri personaggi, come il Rudin di Turgheniev, sembrano esprimere un’altra generazione, altri ideali, ma altrettanta incapacità pratica. Anche per questo diversi critici si accaniscono nelle sottolineature “russe” del fenomeno.
Ma quanti elementi possiamo trovare in comune, ad es., con il dandysmo, che è già fenomeno caratterizzante una borghesia in decadenza! E, se andiamo a studiare il fenomeno in altre epoche storiche, come nel basso impero romano o in generale nelle fasi di decadenza delle civiltà antiche, troveremo elementi di accidia e di incapacità pratica in quelle espressioni letterarie, utili per un raffronto. Sicuramente in Oblomov esiste molto di “russo”, ma paradossalmente l’ “oblomovismo” sembra travalicare i confini sia di una spiritualità tipicamente russa che quelli che ne limitano la configurazione a quella di una nobiltà ormai in via di spegnimento.
Credo che ogni forma di civiltà che manifesta elementi di stagnazione e di putrefazione, contenga elementi di oblomovismo. Una fauna umana e un ricco campionario di moderni Oblomov è possibile enuclearla da tanti ambienti soprattutto, ma non esclusivamente piccolo e medio borghesi di questo fine secolo che si prolunga nel terzo millennio in crisi planetaria. Per certi versi, gli alibi escogitati al nullismo pratico contingente e morale universale potrebbero apparire ancora più squallidi e sordidi che quelli di Oblomov.
Né sarebbe male confrontare i sogni mai messi in opera di Oblomov con quelli di tanti borghesucci italiani del nostro tempo. Basterebbe vedere un film di Nanni Moretti, o basta ascoltare le nostalgie ex sessantottine ed ex femministe. Ma questa è piccola borghesia. I borghesi, quelli una volta ruspanti, forse che si salvano? Il loro spettro è l’incertezza e l’assenza di stabilità, il non senso che paralizza, il lasciar fare al capitale fittizio, quello dei desideri, delle aspettative, del diritto alle rendite e dividendi possibilmente esentasse, insomma la propensione al parassitismo totale.
Gli storici hanno fatto accostamenti, soprattutto la “scuola sociologica”, tra le diverse condizioni psicologiche dell’era post-napoleonica, a proposito di spleen, ennui, angoscia kierkegaardiana e noia leopardiana. La shandra di Onieghin, che ha diverse gradazioni, e che è tradotta come “ipocondria”, da Puskin è detta anche “russa”. Egli la chiama anche skika, toska, in pratica noia e vuoto. In generale, tutte queste forme, che assumono una denominazione categoriale in quello che sarà definito il “male di vivere”, tipico dell’epoca decadente, hanno tuttavia connotazioni specifiche nei diversi personaggi e nei diversi autori. Non è da trascurare il fatto che l’intellighenzia russa è impregnata di cultura europea, e sotto certi aspetti è la frangia intellettuale più europeizzata di tutte. Il 1859, da questo punto di vista, è un anno cruciale. I fiori del male di Baudelaire sono di questa epoca e inaugurano la letteratura decadente. Non a caso il concetto di “spleen” vi è ripreso. (dl)
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