viernes, 2 de junio de 2006

Consolati: territorio ostile ai connazionali (Lettera di P. Palau)

Lettera alla redazione de lapatriagrande.net di P.Palau, 02/06/2006

L'Ambasciatore Marco Polo
alla Corte di Kublay Khan
”E che ti credi? Il 2 giugno tutti sono italiani, ma quel giorno il consolato è chiuso. Qui non è come sembra su Rai-internacional… quando vedi “Sportello Italia” tutto è semplice e chiaro, tutto si risolve bene…magari!”

Lettera alla redazione de lapatriagrande.net di P.Palau

Sono in viaggio da due mesi, piacevolmente trascorsi tra il Brasile e il Venezuela, dove sono arrivato per via terrestre e fluviale da Manaus, attraversando quell’incredibile e bellissima muraglia verde della Selva amazzonica che separa i due Paesi.


Si avvicina la data del ritorno in Italia, con un volo da Caracas –con scalo a Miami- poi Roma. Mi hanno detto che per il transito a Miami è obligatorio il visto, e c’è anche chi mi dice che bisogna avere il nuovissimo passaporto digitalizzato. Se no non ti fanno passare.

Vado al Consolato di Caracas per verificare se queste cose sono vere e se mi possono dare una mano. Arrivo e vedo una coda lungo il marciapiedi esterno. Dopo quasi un’ora mi danno un talloncino con il numero 150, e mi fanno entrare.

Nel cortiletto ricoperto da una tettoia, non ci sono abbastanza sedili per tutti quelli in attesa del loro turno. C’è chi legge il giornale, chi familiarizza per ingannare l’attesa. Si sentono parlate con accenti meridionali, farcite con parole spagnole o spagnolizzate: questi sono gli emigrati arrivati qui negli anni ’50.

Poi risuona anche l’italiano con cadenze non dialettali dei più giovani, cioè la seconda o terza generazione, dei nati qui.

Nell’ambiente aleggia un’aria antica di spaesamento verso gli enigmi della burocrazia, la rabbia e –soprattutto- la rassegnazione verso le lungaggini e i cavilli. Molti tra i presenti vengono da altre città, si rivolgono al Consolato generale perchè spesso una pratica da Caracas alla provincia, cioè a poche ore di autostrada, impiega due mesi in più.

E’ il caso di Giorgio, un marchigiano emigrato qui 9 anni fa, che ha formalizzato la residenza, iscrivendosi all’anagrafe degli emigrati (AIRE). Ha iniziato la pratica per il rinnovo del passaporto a febbraio: la Questura ha inviato l’autorizzazione ai primi di marzo. Finora non gli è stato ancora consegnato il nuovo passasporto.

Giorgio è venuto personalmente, affrontando un lungo viaggio, per vedere di accelerare i tempi. Mi dice: “Normalmente ci vogliono due mesi, io sono ormai al quarto mese, e devo andare in Italia. Fanno a scaricabarile tra Caracas e gli altri consolati, e uno è nelle loro mani”.

Interviene nella conversazione anche un siciliano di Siracusa, arrivato qui nel 1951, al seguito di una ditta che lavorava nell’elettrificazione.

“E’ sempre stato così. Io rimasi senza rinnovare il passaporto per 9 anni, perchè volevano troppi soldi questi qua. Il servizio è malissimo, però se vai da alcune agenzie precise, ti fanno le pratiche veloci veloci. A me per recuperare la cittadinanza di un figlio mio, mi hanno chiesto 800 euro. Siccome non ce li ho, sono quattro anni che sto tribolando”.

Mi colpisce la compostezza di questa gente e la loro pazienza, rimangono increduli quando li informo che in Italia un passaporto si rinnova in un paio di giorni, o che si può farlo anche presso i Comuni. Uno mi dice che si accontenterebbe se qui si potesse farlo in un mese.

La coda scorre con troppa lentezza, affiora qualche malumore, compare un carabiniere, la cui funzione principale sembra quella di mantenere la gente sotto lo scalino d’entrata degli uffici.

Ci sono delle macchinette, e la signora Assunta mi offre un caffé perchè vede che non ho le monete. Lei è una abruzzese arrivata qui nel 1948, ha quattro figli, due nati in Italia e due qui.

Mi racconta l’incredibile vicissitudine, la storia labirintica e kafkiana per ottenere la cittadinanza anche per i suoi figli “venezuelani”. Di fronte alla mia faccia incredula, mi dice:

”E che ti credi? Il 2 giugno tutti sono italiani, ma quel giorno il consolato è chiuso. Qui non è come sembra su Rai-internacional… quando vedi “Sportello Italia” tutto è semplice e chiaro, tutto si risolve bene…magari!”

Uno alza la voce, protesta e l’incaricato chiama inmediatamente il carabiniere, che lo sospinge giù dal fatidico scalino.

E’ un quarantenne pugliese che importa ricambi per i camion, ha bisogno del passaporto perchè deve andare a comprare pezzi a Miami e in Brasile. E’ incazzato per i ritardi e la durata di ogni tipo di pratica.

”Qui non sanno che cos’è l’autocertificazione, sembra un’altra Repubblica… Quello che è valido in Italia, qui è sconosciuto, forse non è ancora arrivato l’editto con… a caravella”.

Mi dice che c’è poco personale, praticamente lo stesso presente in altri Paesi sudamericani dove, però, vivono pochissimi italiani.

 “Qui c’è una comunità molto numerosa, non è come in Ecuador o Paraguay e Bolivia”. Gli chiedo perchè non aumentano il personale, e mi risponde: “Perchè l’impiegatuccio che arriva dall’Italia guadagna 6 o 7000 mila euro. Dovrebbero assumere figli di italiani, che costerebbero meno e lavorerebbero di più e meglio. Questi qua è come se stanno in vacanza”.

Già. Chiamano il 150, vado allo sportello, spiego il mio caso, e mi dicono che loro non possono fare niente, mi suggerisce di andare all’ambasciata USA. Non mi è concesso di parlare con nessun funzionario. Avanti un’altro.

A questo punto, non mi resta che fare il cammino a ritroso, cioè una settimana tra autobus e battello fino a Boavista, dove avrò il piacere di rincontrare la simpatica Janaina; poi con un volo interno arrivo a Sao Paulo.
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