Il 23 febbraio è mancato improvvisamente Arrigo Cervetto. Pubblichiamo l’orazione funebre pronunciata da Lorenzo Parodi, che per cinquant’anni lo ha accompagnato nella sua battaglia politica e teorica.
Avevamo appena ricordato insieme il nostro cinquantesimo di attività politica.La nostra generazione operaia aveva dovuto fare la sua scelta nel 1943-1944. La seconda guerra imperialistica aveva ancora una volta accelerato il ritmo della storia, con l’impiego delle tecnologie della distruzione di massa, con l’immissione di nuove masse nell’organizzazione della produzione.
Nella scelta del 1943-1944 avevamo colto istintivamente l’aggettivo “imperialista” della guerra: quello che delimita il rapporto col mondo, il senso del tempo e dello spazio; quello che fa maturare improvvisamente la coscienza della discontinuità, in quanto produce uno spartiacque e una frattura nel mondo contemporaneo, suscitando il confronto tra “storia” e “teoria”, fino a portare alla consapevolezza che la guerra è solo la politica condotta con altri mezzi.
E’ stato rilevato come dagli epistolari prodotti dalla prima guerra mondiale sia sortito il concetto della scrittura come spazio autonomo, conquistato attraverso il diniego della guerra stessa, attraverso l’autodifesa, la fuga e la stessa diserzione. Anzi, proprio la diserzione, come sottrazione agli imperativi nazionalistici della mobilitazione e del massacro, finisce per collocarsi al centro della “storia”, quella che trasforma una guerra imperialista in una guerra civile.
Ebbene, anche questa è stata l’esperienza nostra maturata nella seconda guerra mondiale: quella di aver sentito il bisogno di scrivere, da quella circostanza in poi. I quadri operai “scrittori” sono molto più esprimibili in quelle condizioni, quando la scelta di classe diventa una scelta politica che va oltre la propria vocazione autobiografica.
Lo scrittore Arrigo Cervetto è nato da quella esperienza. La “zona sociale franca” dalla quale ha iniziato la sua parabola politica è stata quella del partigianato, ma, proprio perché essa è nata dal confronto tra “storia” e “teoria”, il partigianato non poteva rimanere in lui come il santuario del reducismo.
Bisognava andare avanti, scoprire, oltre l’istinto di classe, il perché dell’imperialismo.
Lo ricordammo a suo tempo, celebrando il primo quarto di secolo della nostra organizzazione. Oggi è occasione veramente amara dover ricordare, in queste circostanze, il nostro secondo quarto di secolo.
Ricordammo che nel febbraio 1951, al nostro primo Convegno nazionale di Genova Pontedecimo, l’origine politica dei convenuti (nella composizione sociale prevalevano i metallurgici) rispecchiava il travaglio di una generazione che aveva visto bruciare in pochi mesi “quella che aveva considerato un’occasione rivoluzionaria”.
Il compagno Cervetto era parte, al Convegno di Genova Pontedecimo, di quel 35 per cento di convenuti che provenivano dal PCI e che con questo partito avevano già rotto nella clandestinità, appena compreso il significato della “svolta di Salerno” e delle successive tappe del compromesso storico con la borghesia.
Se quel convegno -ricordammo- fosse stata una iniziativa di intellettuali, la dialettica interna dell’organizzazione che si andava formando si sarebbe esplicata nella ricerca e nella tolleranza di differenze e dissensi coltivati per pura speculazione ideologica, determinando vere e proprie deformazioni di eclettismo teorico e quindi di inconsistenza organizzativa.
Invece l’esperienza del nullismo anarchico ci aveva vaccinato, caratterizzando subito la nostra iniziativa nella ricerca della omogeneità teorica.
Omogeneità, nella concezione del partito, vista in rapporto a tutta l’esperienza della classe operaia internazionale, nella sua condizione di “educatore che deve essere educato”.
Educato dal fallimento dello stalinismo, come il partito di classe uscito dalla prima guerra mondiale era stato educato dal fallimento della socialdemocrazia europea. Cinquant’anni fa il fallimento dello stalinismo era già certo per noi. E anche prevedibile per coloro che colpevolmente lo scopriranno solo alla fine degli anni Ottanta.
Nella relazione introduttiva delle Tesi di Pontedecimo, di cui una parte importante va ascritta al compagno Cervetto, si sottolineava la particolarità dello Stato nell’epoca imperialista: con la tendenza a superare ogni antinomia fra i gruppi egemoni in politica e in economia, e a fondere in un unico blocco le forze detentrici della potenza economica e del potere politico. Un fenomeno caratterizzato dall’integrazione dei vari gruppi insediati nelle banche e nei ministeri, nei trust e nei parlamenti, che determinava la crisi irrimediabile del parlamentarismo, poiché era impossibile scindere il rapporto struttura-sovrastruttura anche nel senso presentato dal riformismo.
Vedevamo anzi la tendenza ad organizzare tale rapporto in una forma più coerente. Alla luce dell’attuale marasma politico italiano, già intravisto venticinque anni fa proprio con le Tesi sullo squilibrio italiano elaborate dal compagno Cervetto, forse abbiamo peccato di sopravvalutazione sulla capacità della classe dirigente borghese di darsi un personale politico adeguato.
Compagno Cervetto, concordo con te -me lo accennasti recentemente- che abbiamo sopravvalutato, nel corso dei nostri lunghi anni di analisi e di studio, le capacità di questi esponenti italiani della classe dominante.
Ma la partenza della nostra parabola rivoluzionaria con le Tesi del 1951 conserva tutta la sua freschezza anche oggi. Affermavamo: «Le magiche parole “conquista del potere politico” hanno già apportato parecchio danno alla classe operaia, sia per le loro disastrose conseguenze dal punto di vista pedagogico (masse e minoranze che non si pongono più attivamente e realisticamente i problemi rivoluzionari ma si trastullano nel miraggio del potere elettorale) sia dal punto di vista politico (masse e minoranze che finiscono per cadere nel trasformismo, per farsi conquistare dal potere politico borghese, illudendosi di conquistarlo)».
Dicevamo che le teorie filistee piccolo-borghesi circa l’uso “conciliatore” dello Stato dovevano essere bandite dal movimento operaio. E dicevamo che non bastava riconoscere le contraddizioni di classe e neppure bastava rifiutare la concezione neutrale dello Stato per attestare su posizioni rivoluzionarie un partito politico. Occorreva invece il supporto di una teoria dello Stato come parte integrante dell’azione politica del partito. Occorreva individuare il “campo di forza” in cui lo Stato è caratterizzato imperialisticamente.
Compagno Cervetto, nell’analisi di questo “campo di forza” è nata la tua specializzazione di studio, che poi ci ha dato quella tua grande opera quale è “L’imperialismo unitario”.
Ancora dalle Tesi del 1951: l’antagonismo tra i gruppi imperialisti, in atto sul piano internazionale, tende a riprodursi sul piano nazionale all’interno di ogni singolo Stato, lungo i rapporti tra governo e opposizione. Si registra perciò sul piano nazionale, da parte dei gruppi imperialisti e delle loro agenzie politiche, un calcolato ed incessante tentativo di interferire nei rapporti di classe per piegarli e impegnarli nella strategia imperialistica.
E’ quella gran parte delle Tesi che anticipava i punti fermi del tuo editoriale di “Lotta Comunista” al momento della sua nascita nel 1965, intitolato “Il nemico è in casa nostra”.
Dopo le Tesi del 1951, verranno le Tesi del 1957 centrate appunto sullo sviluppo imperialistico, la durata della fase controrivoluzionaria e lo sviluppo del partito di classe.
In quel momento del 1957 (ricordi? volava il primo Sputnik e ci dicevano che il socialismo veniva dalla conquista dello spazio) dovemmo ricominciare daccapo il nostro lavoro di ritessitura e di conquista teorica del partito della classe.
Imperversava il movimento di socialdemocratizzazione dei partiti ex-operai. Era il momento di Nenni, e tu a scrivere nelle Tesi che solo tenendo presente l’aspetto della teoria marxista e leninista che individua l’imperialismo essenzialmente come conquista e ripartizione del mercato mondiale (conquista e ripartizione che avviene tramite la supremazia degli scambi commerciali e le esportazioni dei capitali da parte dei paesi più industrializzati) potevamo ristabilire la definizione di “imperialismo”, risalendo alle fonti stesse della teoria marxista e alle leggi obiettive che questa ha scoperto nel processo di produzione capitalistico.
Non solo da quelle Tesi nacque il libro sull’imperialismo, ma nacque in forma veramente autonoma “Lotta Comunista”, come partito prima che come giornale.
In quelle Tesi ponesti una serie di problemi che riguardavano l’analisi della situazione italiana, l’analisi del cosiddetto “neocapitalismo” (lo vediamo adesso quanto era già vetusto) e del “capitalismo di Stato”, il corso della lotta di classe in Italia, la natura e i caratteri della democrazia parlamentare borghese, la natura, il ruolo e le funzioni dei partiti ex-operai.
Non ci trovammo paura nel dover ricominciare da zero. Le nostre Tesi raccolsero un nucleo di compagni seri, consapevoli dell’impegno che ci attendeva, disposti a portarlo avanti nei tempi lunghi. Finché in una decina d’anni fummo in grado di raccogliere i frutti della nostra seminagione, presenti all’appuntamento con una nuova generazione operaia protagonista dell’ondata tradeunionista di fine anni Sessanta.
Quando poi all’ondata tradeunionistica, quella che rafforzò la nostra organizzazione con l’apporto di quadri impegnati nel sindacato, succedette l’ondata piccolo-borghese di movimenti studenteschi usciti dalla crisi della scuola, io ricordo con te come liquidasti certi intellettuali che si erano presentati a noi per dire che Lotta Comunista abbisognava appunto di quadri intellettuali. Rispondesti che l’unica carenza della quale ci dovevamo preoccupare era quella dei quadri operai. Tant’è vero che i nostri compagni studenti, provenienti dal 1968, andarono a lavorare nelle fabbriche e divennero quadri operai.
La tua risposta riassumeva il valore di quel tuo primo libro, “Lotte di classe e partito rivoluzionario”, in cui è raccolta l’esegesi del “Che fare?” di Lenin e il concetto fondamentale di “formazione economico-sociale”, ossia i criteri scientifici indispensabili al passaggio dall’analisi alla lotta politica.
Ricordiamo insieme il tuo Lenin più amato, quello che spiega dove la classe operaia può attingere la sua coscienza. La può attingere soltanto nel campo dei rapporti reciproci di tutte le classi, nel campo dei rapporti di tutte le classi con lo Stato, nel campo dei rapporti politici.
Non può essere altrimenti, spieghi con Lenin, perché all’interno della lotta economica la classe operaia conosce solo il rapporto sociale “operai e padroni”, conosce solo un aspetto di tutta la vita economica e lo conosce deformato e mistificato. Lenin dice che l’operaio deve rappresentarsi chiaramente la caratteristica economica e la figura politica e sociale del proprietario fondiario, del prete, dell’alto funzionario, del contadino, dello studente e del vagabondo, ma in questo passo Lenin non accenna alla figura del capitalista. La ragione, spieghi, è che all’operaio la caratteristica economica e la figura politica e sociale del capitalista possono apparire chiaramente soltanto attraverso la conoscenza, che infine è politica, di tutti gli altri personaggi sociali e di tutti i loro rapporti.
La lezione di Lenin da te ripresa negli anni Sessanta (la prima edizione del libro è del 1966) è attualissima. L’opportunismo ha talmente deformato il concetto di “coscienza”, che in una lotta tra capitalisti per gli “imperi dei media” (quale è quella attuale) la classe operaia è trascinata un po’ dietro il carro dell’uno e un po’ dietro a quello dell’altro, senza ritegno.
Compagno Cervetto, io so che nel patrimonio di lotta e di studio che ci hai lasciato, “Lotte di classe e partito rivoluzionario” è il libro prediletto: non solo perché è stato il primo, ma perché con esso hai educato più di una generazione di rivoluzionari.
Recentemente ci parlavi dei “figli” che avresti lasciato in patrimonio. I figli-figli sono qui vicino a te, ma rappresentano la nostra sfera privata. Parlavi dei libri come figli, ormai più vicini alla decina, che Lotta Comunista continuerà a pubblicare.
Questi sono i figli che rappresentano la continuità della nostra vita sulla morte.
Sono i figli della tua coerenza rivoluzionaria, in una continua elaborazione e applicazione della teoria marxista e leninista.
I compagni qui presenti rendono omaggio a questa tua coerenza, a questo tuo impegno, che rifiuta il quieto vivere del minimo sforzo.
Tu sei stato “capo” nel senso più genuino! Tu hai dato l’esempio nell’impegno a tessere l’organizzazione e ad elaborare la teoria. Per questo lasci un vuoto incolmabile.
La vita però, come suol dirsi, continua. Per Lotta Comunista continua lungo il solco da te tracciato, con i quadri da te educati alla lotta e alla durezza di una pratica politica che non può stancarsi del lungo percorso, consapevoli dei tempi lunghi di una rivoluzione che le contraddizioni dell’imperialismo portano con sé.
Col sentimento ti lasciamo con il pianto nel cuore. Con la coscienza rivoluzionaria non c’è commiato: c’è l’impegno a continuare la tua opera.
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