domingo, 20 de diciembre de 2015

Per una storia della corrente leninista (1983)

Giovanni Poggi, Lotta Comunista N. 150 del febbraio 1983 e N. 151 del marzo 1983



Questa sintetica “storia” di Lotta Comunista fu redatta da Giovanni Poggi e pubblicata in due fascicoli del giornale omonimo (“Genova punta avanzata della ripresa del leninismo in Italia”, Lotta Comunista, n. 150 febbraio 1983 e “Le tappe del partito leninista”, Lotta Comunista, n.151 marzo 1983)
Di fronte alla clamorose bocciature dell’accordo sul costo del lavoro partite dall’Ansaldo e dalle altre grandi fabbriche genovesi, Gerardo Chiaromonte, su “l’Unità” del 6 febbraio 1983, scrive che il «fatto grave» è stato determinato da due cose:

«La prima è che non c’è sufficiente consapevolezza, fra i lavoratori di quella grande fabbrica genovese, della portata politica dello scontro sociale che era ed è in atto e degli obiettivi che si proponevano di raggiungere gli esponenti più oltranzisti della Confindustria ed anche una parte della DC; la seconda è che hanno ripreso una qualche influenza in quella fabbrica gruppi politici estremisti (di varia gradazione e pericolosità) che negli ultimi tempi eravamo riusciti ad emarginare e che si distinguono per la loro aggressività anticomunista e antisindacale».
Evidentemente G. Chiaromonte non conosce bene la storia del movimento operaio genovese e della sua avanguardia rivoluzionaria: è necessario ricordargliela.
Per noi è fondamentale la teoria leninista sull’opportunismo nell’epoca imperialista, seconda la quale lo sviluppo capitalistico stesso, con la massa crescente di plusvalore estorto, fa sì che l’opportunismo nel movimento operaio diventi un fenomeno costante, tipico, universale. La conseguenza è che la lotta contro di esso è un passo obbligato nello sviluppo del partito e nel processo rivoluzionario.
Tale teoria fa perno su due cardini: si conosce la funzione controrivoluzionaria dell’opportunismo solo quando si lotta contro il capitalismo e lo si può combattere efficacemente solo col massimo di organizzazione. Per Lenin, quindi, la vera educazione delle masse non può mai essere separata dalla lotta e il militante rivoluzionario, così come la classe, attraversa questo processo materialistico di formazione prima di approdare alla coscienza teorica del partito. La lotta contro l’opportunismo diviene lo sviluppo conseguente della lotta contro il capitalismo. Da ciò deriva l’esigenza metodologica di individuare i meccanismi di determinazione oggettiva dell’opportunismo; in questo senso, la sua analisi è un punto fermo del nostro partito, fin dalle sue origini, così come lo è l’analisi dell’imperialismo unitario.
La prima tappa la possiamo schematicamente vedere tra la fine della guerra e il 1956: il primo decennio della ricostruzione e poi dello sviluppo capitalistico.
Se nel 1948 vengono raggiunti i livelli produttivi dell’anteguerra, nel 1956 il capitale è raddoppiato in termini reali; tutto ciò, naturalmente, è pagato pesantemente dalla classe operaia.
Il PCI e il PSI erano al governo, con propri ministri, insieme agli altri partiti (DC, PLI, ecc.) fino al 1947: in questa prima versione, facendosi forti del prestigio acquisito con la lotta armata e il mito dell’Unione Sovietica, operarono la saldatura tra classe operaia e Stato, attraverso l’ideologia della tregua sociale e della collaborazione nazionale nella ricostruzione. Basti, per tutti citare il Segretario del PCI, Palmiro Togliatti, nel discorso dell’Assemblea Costituente del 19 febbraio 1947:
«Siamo un paese nel quale le organizzazioni operaie hanno firmato una tregua salariale, cioè un patto che è unico nella storia del movimento sindacale, perché è un patto in cui non si fissa un minimo ma un massimo di salario, cosa questa che non era mai avvenuta … orbene, questo patto l’hanno accettato i nostri operai, l’hanno firmato i nostri sindacati e l’hanno firmato senza che dall’altra parte venisse preso un impegno di osservare un massimo di prezzi …» (P. Togliatti, “Discorsi alla Costituente”, Editori Riuniti, 1973, pag. 155).
Cacciati dal governo, nell’ambito della cosiddetta guerra fredda, e sconfitti nelle successive elezioni del 1948, i partiti della sinistra parlamentare aprirono una nuova fase di opposizione frontale, massimalista e demagogica, ai governi centristi della DC.
Pertanto, la generazione operaia, i cui ristretti gruppi di avanguardia daranno vita alla nostra corrente leninista, si trovò a vedere già, nel giro di pochi anni, due volti opposti dello stesso opportunismo. Uscita dall’esperienza della Resistenza, dovette superare subito ogni inconcludente rimpianto per una “Resistenza tradita”. Per attestarsi era necessario rompere con qualsiasi forma di collaborazione di classe e ricollegarsi alle radici leniniste, recise e mistificate dalle ondate controrivoluzionarie degli anni Venti e Trenta.
Ne febbraio 1951, in piena fase di ristrutturazione industriale post-bellica che aveva il suo epicentro nelle delegazioni industriali genovesi, si riunirono in un Convegno Nazionale, a Genova-Pontedecimo, compagni provenienti da quasi tutte le regioni d’Italia per «concludere un lungo lavoro d’intesa e di raccolta» alla ricerca di un’indispensabile omogeneità programmatica e organizzativa, ma anche per iniziare una sistemazione teorica, compiutamente leninista, che avrebbe trovato la sua sanzione nelle tesi del Convegno Nazionale di Livorno del 1957.
Negli anni immediatamente successivi, si precisarono alcuni capisaldi:
– il metodo: «… quindi bisogna centrare l’analisi e la critica nella direzione principale, bisogna concentrare nuovamente l’attenzione sul problema di fondo, bisogna scendere dall’analisi della sovrastruttura a quella della struttura sociale. Solo in questa direzione si potrà ricollegare tutta quella serie di problemi d’ordine politico e d’ordine economico che giorno per giorno si impongono e avere uno schema abbastanza sicuro di prospettive di previsione e di lotta. Abbiamo ripetutamente detto che l’azione politica che la classe dirigente sta attuando è strettamente legata e determinata da fattori internazionali e interni …» (A. Cervetto, “L’Impulso”, n° 3-4, 15 aprile 1953).
– la lotta politica e sindacale: «… la nostra insistenza sullo sviluppo della lotta salariale, basata sulla valutazione che la coscienza di classe delle grandi masse operaie è ancora allo stato “tradeunionista”, strettamente rivendicativo, si scontrava così contro la politica socialcomunista che vuole dalle masse la mobilitazione per la mobilitazione, in quanto basata sulla popolarizzazione dei problemi di “fondo” per il cambiamento della politica economica. Una mobilitazione in questo senso serve solo a sviluppare delle campagne elettorali su temi più sentiti e per dare una base d’appoggio all’azione parlamentare …» (L. Parodi, “L’Impulso”, n° 11, 15 novembre 1954).
-l’esigenza dell’organizzazione: «… i nostri avversari di tutte le risme ci odiano se siamo in molti, ma ci odiano, ci disprezzano e ci schiacciano se siamo in pochi …» (comunicato sul tesseramento, “L’Impulso”, n° 1, 15 gennaio 1954).
Col 1956 si può considerare aperta una seconda tappa per lo sviluppo del nostro partito: in quell’anno cruciale apparve allo scoperto la lotta interimperialista, dalla guerra di Suez all’invasione dell’Ungheria, al crollo del mito di Stalin in Russia. Tutto ciò riportò l’Italia nel gioco internazionale, a cui, d’altra parte, si era già stabilmente agganciata con uno sviluppo capitalistico che stava per entrare nella sua fase più intensa.
Gli opportunisti furono tagliati fuori da questo processo che non previdero e che subirono; questa sfasatura con la realtà e i riflessi delle lotte di potere in Russia portarono ad una grave crisi del PCI e della CGIL. Avvenne così tutta una nuova dislocazione dei partiti e delle correnti al loro interno: sia nel PSI di P. Nenni, avviato alla riunificazione con il PSDI e alla stagione del centro-sinistra, sia nel PCI di P. Togliatti, proteso a salvaguardare la capra dei legami storici con lo stalinismo e i cavoli dei nuovi compiti determinati dalla ripresa imperialistica dell’Italia. Il PCI e il suo nuovo corso si adattarono all’evoluzione dei rapporti tra le potenze e al possibile interesse ad accordi tra URSS e paesi europei sul terreno economico e diplomatico.
Analizzando l’Ottavo Congresso del PCI (1956), vedemmo la rivalutazione del classico riformismo socialdemocratico in chiave socialimperialista (ad esempio dove si auspica per l’Italia una più penetrante “politica mediterranea”). Denunciammo sia l’appoggio pratico alle nazionalizzazioni, presentate come passo verso il socialismo, sia la difesa della piccola borghesia agricola e commerciale in una logica di alleanze interclassiste. A ciò corrispondeva una battaglia sociale in evoluzione tale che il PCI, nel momento in cui abbandonava lo stalinismo verso la socialdemocratizzazione, riusciva a mantenere il controllo delle masse. Si trattava pertanto di una crisi parziale dell’opportunismo, non generale, che, se poteva favorire la formazione del partito rivoluzionario, non la determinava automaticamente.
Sviluppammo, allora, le tesi leniniste sul partito di classe e partito di quadri, che vanno collegate alle contemporanee tesi sull’imperialismo. Occorreva utilizzare la crisi per formare dei quadri operai, intervenire nelle lotte economiche e politiche che tale crisi esprimeva. Intervenire, indipendentemente dalle ideologie confuse presenti nel materiale umano espresso dalla classe e indipendentemente dall’eterogeneità delle forme politiche che ne scaturivano. La nostra corrente passò così dal gruppo “Impulso”, che venne sciolto, all’esperienza di “Azione Comunista”, dove continuò la sua analisi e la sua lotta, per il concetto di partito-strategia e del partito-piano, non solo contro gli avversari dichiarati, ma anche contro le abitudini e le pigrizie massimalistiche e sentimentalistiche, retaggio di tutta la storia del movimento operaio italiano.
Con l’inizio degli anni Sessanta si manifestò un fenomeno sociale nuovo nel panorama italiano: la spontaneità operaia, che emergeva nelle lotte politiche e sindacali, prima a Genova, con le manifestazioni contro il governo Tambroni, poi a Milano e sempre a Genova, con gli scioperi degli elettromeccanici e con il contratto del 1962, infine a Torino con la ripresa degli scioperi alla FIAT. Intervenendo in queste lotte constatammo che, per la prima volta, il PCI non controllava più gli operai in movimento. Studiando il fenomeno che, travalicando le occasionali motivazioni si inseriva in una più ampia dinamica di classe a livello europeo e mondiale, individuammo la crescita del proletariato giovanile e femminile (calcolato in un 50% di nuovi operai). Vi era sfiducia nel sindacato, non per “superarlo”, ma perché non svolgeva bene il suo compito tradeunionista. Noi, che da sempre applichiamo l’indicazione leninista del lavoro rivoluzionario nei sindacati, ci trovammo a lottare contro chi voleva usare la spinta operaia al servizio della borghesia riformista e contro le nuove teorizzazioni spontaneiste provenienti da gruppi intellettuali. Costoro, contrabbandando conquiste sindacali come conquiste di “potere”, allontanavano gli operai d’avanguardia dal problema strategico fondamentale del partito. Se non si opera nelle lotte con posizioni chiare, alla lunga la spontaneità è recuperata da una nuova variante dell’opportunismo.
Coscienti della complessità dei compiti posti dalla lotta di classe in un paese imperialisticamente maturo, analizzammo l’evoluzione del processo di proletarizzazione:
«… si è formato un proletariato sempre più vasto e a forte composizione giovanile e femminile, non solo nel triangolo industriale ma pure in altre zone del Centro-Italia, del Meridione e delle Isole … oltre all’aumento del proletariato industriale due altre forme hanno accompagnato il processo di proletarizzazione: la più alta percentuale di impiegati (i cosiddetti “white colars”) nell’industria e l’estensione del salariato nel settore terziario …» (A. Cervetto, “L’opposizione di Sua Maestà il Centro Sinistra”, in “Azione Comunista”, n° 80, maggio 1963).
Gli opportunisti invece, prima inseguirono le teorie sociologiche sulle “nuove classi”, poi a metà degli anni Sessanta, sorpresi da una congiunturale caduta del ciclo, si buttarono sulle mode esotiche, maoiste e terzomondiste.
La nostra lotta intransigente portò anche all’esaurirsi dell’esperienza di “Azione Comunista” e alla nascita di “Lotta Comunista” nel 1965.
In quel momento il partito leninista è totalmente omogeneo, non solo teoricamente e politicamente, ma anche organizzativamente. Per quanto enormi e difficili i compiti che ancora l’attendono, è ormai un punto fermo di vent’anni di impegno militante, in cui la lotta ad ogni forma di opportunismo è stata una bussola insostituibile.
Nel numero precedente del nostro giornale, ovviamente schematizzando alquanto, avevamo visto come il processo di sistematizzazione e omogeneizzazione tecnico-programmatica del nostro partito si fosse già completato a metà degli anni ’50 (prima tappa dell'”Inpulso”) e come quello di traduzione in centralizzazione politico-organizzativa avesse impegnato tutto il decennio successivo (seconda tappa di “Azione Comunista”). Con l’uscita del primo numero di “Lotta Comunista”, nel dicembre 1965, si può considerare aperta una terza tappa dello sviluppo che ci vedrà direttamente impegnati nel corso di lotta di classe che sta maturando.
A livello internazionale, in quegli anni si accentuarono le lotte interimperialiste, dalla Cina al Vietnam, al Medio Oriente, all’America Latina, con forti ripercussioni politiche ed ideologiche in Italia. La tensione operaia subì una congiunturale caduta e i contratti sindacali del 1966 furono chiusi al ribasso, preparando anche in questo modo le successive lotte in offensiva.
Naturalmente l’opportunismo interpretò gli avvenimenti secondo le esigenze borghesi: così, travisando la nuova dinamica dell’imperialismo italiano e mondiale, dipinse l’Italia come una semplice «colonia americana»; addirittura vari gruppi piccolo borghesi intellettuali, sorti dalla crisi dell’opportunismo, ma legati alla sua dinamica, parlarono di una «classe operaia integrata» che aveva ceduto il suo ruolo storico rivoluzionario ai contadini del Terzo Mondo.
La realtà economica stava invece determinando quei fenomeni sociali come la proletarizzazione, l’urbanizzazione, la scolarizzazione di massa, che sarebbero poi emersi a livello politico proprio nelle metropoli imperialiste. Noi vedemmo come l’intensa proletarizzazione ponesse l’esigenza al sistema di accelerare la socialdemocratizzazione con la formazione di consistenti aristocrazie operaie. Sarebbe stato però molto difficile compiere in pochi decenni ciò che altri imperialismi compirono in periodi lunghi anche secoli, e ciò avrebbe aperto ampie contraddizioni attraverso le quali sarebbe stato possibile sviluppare il partito di quadri, collegandoci con strati coscienti di operai in rottura ideologica e pratica con l’opportunismo.
Operai ancora con atteggiamenti spontaneisti e massimalisti, quindi recuperabili da parte dell’opportunismo, che può assumere forme nuove, trasformarsi in movimento più articolato, generare gruppi e correnti. Per questo ci battemmo non assecondando minimamente le varie forme massimalistiche, ma sviluppando l’organizzazione.
Arrivammo in tal modo teoricamente e politicamente preparati, benché il ritardo organizzativo fosse ancora grave, di fronte al ciclo di lotta di classe del periodo 1968-1970; scrivemmo, nell’estate del 1967:
«… per il prossimo futuro si stanno preparando tutte le condizioni di una forte ripresa della lotta economica operaia che, ancor più che nel passato, sarà caratterizzata da una spinta spontanea oggettivamente contrastante con la direzione opportunistica dei sindacati. L’esperienza degli anni passati ha dimostrato all’organizzazione leninista che la classe operaia, in certi momenti della sua lotta, sfugge all’apparato riformista ed esprime posizioni avanzate che possono trovare una saldatura con l’avanguardia rivoluzionaria. Se ciò è stato possibile nel passato, ancor più lo sarà nelle lotte future. La nostra organizzazione leninista deve perciò essere pronta ad orientare verso obiettivi politici tutto un potenziale di lotta operaia che lo stesso sviluppo capitalistico sta accumulando … il leninismo è teoria organizzata, è organizzazione degli elementi più coscienti della classe operaia. Non basta avere ragione sul terreno teorico. Occorre far prevalere la nostra ragione sul terreno organizzativo …» (L. Parodi, “Preparare il partito leninista per le future lotte operaie”, in “Lotta Comunista” n° 17-18, luglio-agosto 1967).
Contemporaneamente la nostra ristretta organizzazione, fatta da operai, si inserì nelle agitazioni studentesche, diventate fenomeno politico di massa e usate dalle frazioni borghesi nelle loro lotte. Fu per il partito un campo nuovo di lotta ideologica e politica finalizzata al reclutamento di giovani quadri:
«… le masse studentesche in tutti i paesi sono, per loro natura, settore di incubazione di nuovi quadri politici, sensibili, più di altri strati, a queste crisi di transizione e suscettibili a fornire gruppi e base a nuovi movimenti politici espressi dalle nuove condizioni. Ogni soluzione è possibile specie dove la prevalenza piccolo-borghese impedisce di trovare un punto fermo, anche minimo, nella lotta di classe. Le agitazioni studentesche possono costituire una fase preparatoria alla formazione di quadri rivoluzionari per lo sviluppo del partito leninista di classe … se invece le agitazioni studentesche finiranno col fornire nuovi gruppi alle lotte interimperialistiche, all’opportunismo riformato o ai giovani capitalismi, la lotta di costruzione del partito leninista avrà, come tante altre volte nella storia, ostacoli addizionali da superare …» (“Tesi sulla tattica leninista nella crisi della scuola”, in “Lotta Comunista” n° 27-28 maggio-giugno 1968).
Le lotte operaie assunsero, come previsto, la forma spontaneistica-tradeunionistica, mettendo in luce la spinta al salario e all’egualitarismo di fronte ai ritardi accumulatisi in anni e alle stridenti sperequazioni esistenti. Furono imposte dai fatti nuove forme di rappresentanza sindacale (i delegati) e i nuovi metodi di lotta.
Tutto questo non lo scambiammo per una spinta rivoluzionaria, anche se ci avrebbe attirato più simpatia nella moda del momento, ma continuammo a definire la fase come controrivoluzionaria. In Italia emerse una linea riformista del grande capitale tendente ad utilizzare le lotte operaie, e quelle studentesche, per superare i ritardi sociali e politici determinati da una crisi di squilibrio tra struttura e sovrastruttura. Consistenti correnti opportuniste, nei partiti e nei sindacati, cambiarono pelle per adattarsi a queste nuove esigenze borghesi. Ci furono tutti contro quando ci impegnammo nelle vertenze aziendali e nazionali, dal 1969 al 1972, accrescendo ulteriormente la nostra specifica esperienza sindacale con le lotte per l’inquadramento unico, che proprio a Genova, e ancora una volta proprio all’Ansaldo, ebbero il loro banco di prova.
La tesi del 1966 su «Genova punta avanzata», richiamata nell’articolo sindacale del numero scorso del nostro giornale, assunse per noi un valore strategico proprio perché quella classe operaia, prodotto di decenni di esperienza storica, di concentrazione, di professionalità, avrebbe comunque dovuto arrivare allo scontro diretto con il mito controrivoluzionario del capitalismo di Stato. Non rettificammo la nostra analisi neppure quando l’epicentro delle lotte si spostò a Milano e Torino, né mai accettammo che l’avanguardia della classe fosse diventato l’operaio-massa di più recente proletarizzazione.
Proprio facendo perno su Genova, invece, ci insediammo più stabilmente nelle metropoli operaie del triangolo industriale e in zone e direttrici di sviluppo di alcune regioni italiane.
Già nel 1972 però individuammo la fase di riflusso dell’ondata tradeunionistica, anche se per alcuni anni permarrà una parziale spinta di classe e un clima offensivo che si manifesterà in lotte di fabbriche, studentesche e anche sociali, come l’occupazione di case nelle periferie delle grandi città. Intervenimmo perfezionando le nostre esperienze di lavoro e di agitazione tra le masse, ma accentuando e precisando criteri e metodi del lavoro organizzativo.
Al Convegno Nazionale del settembre 1972 a Genova ponemmo all’ordine del giorno l’esigenza di organizzarci meglio, ricordando che nella fase di riflusso le carenze in questo campo pesano di più non essendoci la possibilità di recuperare sull’onda della spontaneità quello che si è perso.
Partendo sempre dall’esperienza genovese, portammo avanti la “linea dei Circoli Operai” che avevamo cominciato ad aprire nei quartieri delle grandi città come punti di organizzazione della spontaneità operaia e giovanile attorno a nuclei di militanti di partito. Spingemmo da subito perché i circoli si stabilizzassero applicando nella pratica la costante logica dialettica dello sviluppo, tra allargamento del lavoro di massa e stretta organizzativa. Consolidandosi e precisandosi nei loro aspetti operativi e formali, divennero l’applicazione concreta delle strutture territoriali di base del partito leninista.
In un Centro Nazionale Allargato del 21 gennaio 1973, dando la direttiva di un maggiore impegno nel lavoro dei Circoli Operai si diceva che «possiamo entrare in un’orbita completamente nostra, libera e sgombra, possiamo arrivare ad avere un circuito politico nostro …», perciò era necessaria una maggiore regolarità nella diffusione della stampa, sia per l’orientamento politico che per la funzione di organizzatore collettivo; occorrevano sedi adatte, attivi cittadini, scuole di partito, strutture permanenti di lavoro e di funzionamento interno, con piani e obiettivi verificabili oggettivamente. Era l’attuazione del partito inteso come combinazione di attività specifiche. Possiamo, approssimativamente, vedere in quegli anni l’inizio della quarta tappa, quella attuale, dello sviluppo del partito, temprato dal più ampio confronto con la lotta di classe e con i problemi del funzionamento pratico.
Nel periodo 1974-1976 l’ideologia opportunista di massa credette di vedere un susseguirsi di vittorie: dai contratti sindacali non salarialisti, ma basati su riforme e investimenti, alle avanzate civili (divorzio) e a quelle elettorali del PCI (1975 e 1976). In realtà la spinta operaia, rivelatasi peraltro troppo limitata per intensità e durata anche nel 1969, stava rifluendo e la borghesia recuperava.
Le masse smosse tra operai e studenti erano ancora in gran parte egemonizzate dalla borghesia e dall’opportunismo. Contemporaneamente però il partito leninista si era sviluppato, superando ormai le dimensioni tecniche del piccolo gruppo e presentandosi come possibile punto di riferimento della classe operaia. Si può dire che il corso di lotta di classe abbia dato una combinazione, diseguale nei tempi e nei luoghi, di entrambe le soluzioni possibili: da una parte un enorme spreco di forze e nuove energie all’opportunismo, dall’altra una nuova leva di quadri leninisti al partito.
Ciò comportava possibilità di collegamento con le punte più avanzate di lotta operaia, specialmente nelle metropoli del Nord, ma anche, conseguentemente, un accentuato attacco su ogni fronte e con ogni mezzo da parte degli avversari di classe di qualsiasi tipo. Militanti temprati e solidi legami col proletariato hanno permesso di respingere ogni provocazione e di procedere nel cammino.
Adesso il partito poteva concretizzare il concetto di partito piano, riprendendo l’esperienza leninista del lavoro sistematico e capillare degli anni della controrivoluzione dopo il 1905 e applicandola alla realtà di un imperialismo maturo. Nel 1975 questo lavoro veniva approfondito teoricamente e politicamente, oltre che perfezionato tecnicamente su scala più ampia, introducendo via via più regolari campagne politiche e sperimentati metodi d’intervento.
Dal 1976 iniziò l’esperienza dei governi di “solidarietà nazionale” con l’appoggio del PCI, che ritornò ad indossare la vecchia maschera della collaborazione governativa già da noi conosciuta nel 1945. Il logoramento e lo scaricamento del PCI dalla maggioranza portò al ritorno alla classica alleanza DC-PSI, che continuò la politica antioperaia di quella precedente, con la variante di un PCI che recuperava toni demagogici e massimalisti nelle piazze per continuare con i compromessi e i cedimenti in sede parlamentare e sindacale. In quegli stessi anni vennero sviluppate tesi ed indicazioni politiche che fecero fare un altro salto di qualità al partito.
Ma questa è la storia di oggi, che ci fa vedere la concreta necessità, e possibilità, di uno sviluppo del nostro lavoro di partito affinché si possa aprire una nuova e più avanzata tappa in cui le vittorie teoriche diventino sempre più spesso vittorie politiche ed organizzative.
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