Nelle tesi per I'XI Congresso il PCI definisce il "mantenimento della pace" il compito fondamentale della sua azione politica.
La "pace" diventa il problema principale, attorno al quale tutti gli altri problemi si dispongono in modo subordinato anche se, ovviamente, interdipendente. L'ideologia della "coesistenza pacifica" è di fatto l'ideologia dominante che ispira le tesi del PCI, tanto dominante che non è neppure scalfita dai lampi della guerra del Vietnam. Eppure è stata proprio l'esplosione vietnamita che ha mandato in frantumi il mito della "coesistenza pacifica" e che ha dimostrato come dietro a questa menzogna si nascondesse l'inesauribile lotta per la suddivisione delle sfere d'influenza e per le zone del mercato mondiale tra le potenze imperialistiche, lotta che si basa sulla violenza economica principalmente ma che impiega la violenza militare quando questa diventa inevitabile.
Le leggi obiettive dell'imperialismo, le leggi che regolano la violenza imperialistica comunque esercitata, non si fermano di certo di fronte ai piagnistei dei pacifisti o alle esaltazioni "coesistenziali", anzi più forte è il pacifismo più intensa ed estesa è la manifestazione della violenza imperialistica, proprio a confermare nella concreta realtà la cruda situazione dei rapporti di forza tra le classi nel mondo. Chi contiene ed abbatte la violenza dell'imperialismo è solo la violenza del proletariato internazionale: questo, per tutta la loro storia, i gruppi imperialistici lo sanno bene, di questo hanno una lucida coscienza e quando, invece della violenza proletaria, si trovano di fronte il pacifismo piccolo borghese, ricevono una ulteriore conferma che i rapporti di forza sono a loro favore e che niente lega loro le mani.
Questa è la prima equazione che il marxismo trae dalla esperienza storica delle lotte delle classi nel mondo. La seconda equazione può essere stabilita nel seguente modo: il massimo di "democraticismo" è direttamente proporzionale al massimo di "pacifismo". Da qui si ricava la formula: maggiore "democraticismo" + maggiore "pacifismo" = maggiore imperialismo. Cambiate i nomi, chiamateli "via democratica al socialismo" e "consistenza pacifica": il risultato sarà sempre lo stesso e la formula non sarà una formula astratta ma la sintesi della cruda realtà.
Che avviene di diverso nel Vietnam? L'imperialismo americano, che nel dominio del mercato mondiale e, quindi, della "coesistenza" ha la parte del leone perché la sua potenza militare non è altro che l'espressione della sua potenza economica capitalistica, cerca nel Vietnam non solo di conservare ma di estendere la sua espansione. Per fare ciò impiega tutti i mezzi, nessuno escluso, e può farlo perché non c'è un proletariato internazionale rivoluzionario che gli tagli le mani e che lo colpisca al cuore delle sue basi di partenza, alle arterie che alimentano la sua espansione. Esso si trova di fronte non un "mondo socialista", ma una potenza qual è l'URSS che è uno dei pilastri della strategia imperialistica della "coesistenza pacifica" ed un paese come la Cina che, in una lotta contro l'URSS, cerca, senza minimamente riuscirvi, di contenere l'espansione delle potenze imperialistiche in Asia.
Frutto, la Cina stessa, di una rivoluzione democratico-borghese abbandonata dall'Internazionale Comunista del proletariato, divenuta strumento dello Stato staliniano, e quindi destinata a compiersi a metà, ad essere diretta invece che da un partito operaio lenínista da un partito populista (maoista), non può di certo costituire il centro motore di rivoluzioni conseguentemente antímperialiste in Asia. In altre parole la Cina maoista non può continuare il ruolo a cui, nel pensiero e nell'azione di Lenin, era destinata l'Internazionale Comunista del proletariato internazionale, non solo nell'appoggio, ma nella stessa direzione effettiva delle rivoluzioni antimperialiste nelle zone arretrate. Il colpo mortale all'Internazíonale Comunista fu dato certamente da Stalin, ma a questi non mancò l'adesione di Mao e di Ho Chi Minh.
Pensare, quindi, che anche semplici rivoluzioni democratíco-borghesi possano portare sino in fondo, senza essere di fatto dirette da una organizzazíone rivoluzionaria del proletariato internazionale, una lotta contro l'imperialismo, significa rinnegare l'essenza stessa del marxismo.
Se storicamente fosse valida tale concezione della rivoluzione borghese nell'epoca imperialista, la rivoluzione russa avrebbe avuto una direzione menscevica, il Bolscevismo non sarebbe mai sorto, la rivoluzione si sarebbe fermata a Kerensky e non sarebbe mai arrivata all'ottobre del 1917.
Nella prima rivoluzione del 1905 i marxisti russi arrivarono alla conclusione a cui era già giunto Marx nel 1848: una effettiva rivoluzione borghese non poteva più essere diretta dalla borghesia o dai contadini.
La storia poneva definítivamente questo compito sulle spalle del proletariato e del suo partito. La seconda rivoluzione del febbraio 1917 dimostrò che la teoria marxista era giusta. Una effettiva riforma agraria (borghese e non ancora socialista!) ed una effettiva lotta contro l'imperialismo non potevano essere portati avanti che dalla dittatura del proletariato. La rivoluzione russa, per risolvere nei fatti e non solo nelle parole i suoi problemi democratico-borghesi, divenne una rivoluzione "doppia", da "borghese" divenne "socialista". Ciò fu possibile perché l'azione del partito russo si inquadrò nell'azione del proletariato internazionale.
La lezione dell'Ottobre è oggi più che mai valida. La pratica di Mao e di Ho Chi Minh ne è una conferma.
La guerra del Vietnam non è sorta oggi, così a caso. Essa è un risultato storico dell'intreccio tra la violenta espansione imperialística e l'impotenza delle rivoluzioni democratico-nazíonaliste in Asia. Il continente asiatico è ormai da decenni un vulcano di lotte imperíalistiche e di lotte sociali. Lenin ne intravide giustamente le conseguenze sui rapporti tra le potenze imperialistiche e le possibilità che si aprivano per il proletariato internazionale dalla gigantesca tempesta che si andava accumulando in Asia. Tutte le contraddizioni e tutta la violenza dell'imperialísmo mondiale sarebbero esplose nel rogo asiatico. L'Internazionale Comunista del proletariato internazionale avrebbe attinto a questo enorme serbatoio di "sostanze infiammabili" della rivoluzione mondiale, per dare l'assalto definitivo alle cíttadelle dell'imperialismo occidentale e giapponese. La previsione di Lenin era scientificamente esatta. Mancò l'Internazionale Comunista, ma le fiamme della violenza ímperialistica divamparono e divampano tuttora.
Solo che il centro della lotta non fu, e non è, il fronte delle rivoluzíoni nazionali contro l'imperialismo, ma i vari gruppi imperialistici in concorrenza per la dominazione dell'Asia. Anzi, per molto tempo, le rivoluzioni nazionali, invece di costituire una forza contro i gruppi imperialisti, furono utilizzate in vari modi nella strategia di un gruppo imperialistíco contro l'altro. Il Giappone scalzò l'Inghilterra, la Francia e l'Olanda, ma gli Stati Uniti con l'aiuto dei vari Mao e Ho Chi Minh sconfissero il Giappone e si trovarono l'Asia in mano.
Da gruppo concorrente e compartecipante allo sfruttamento dell'Asia, gli Stati Uniti ne diventarono padroni assoluti, specie nell'Estremo Oriente. Gli anni che seguono la seconda guerra mondiale imperialistica vedono l'espansione militare e, soprattutto, economica dell'imperialismo statunitense non solo nell'Estremo Oriente ma pure nel Sud-Est asiatico, dove i vecchi imperialismí inglese, francese e olandese sono riusciti a conservare, anche se estremamente indeboliti, una certa influenza.
Si apre la seconda fase dell'espansione imperialistica americana diretta a spodestare i vecchi concorrenti e ad impadronirsi economicamente del Sud-Est asiatico.
In questa seconda fase si inquadra l'insurrezione antifrancese del Vietminh. In otto anni il Vietminh arriva praticamente al 13° parallelo e alla vittoria di Dien Bíen Phu. Il rapporto di forze militari (120 battaglioni contro 80 francesi) volge a favore del Vietminh che oggettivamente potrebbe buttare a mare il contingente francese e creare uno Stato unitario indocinese. Ma l'impotenza politica della rivoluzione democratico-borghese vietnamita è dimostrata proprio dagli accordi di Ginevra del 1954, in cui viene sancita la spartizione in due Vietnam al 17° parallelo, viene riconosciuta la sovranità del Laos e della Cambogia, viene proclamata l'unificazione "pacifica", tramite "libere elezioni", dei due Vietnam entro il 1956.
Perché il Vietminh, che aveva vinto sul piano militare, restava sconfitto sul piano politico? Perché accettava che URSS, Cina, Inghilterra, Stati Uniti e India patteggiassero la sua vittoria?
La risposta può essere data esaminando vari aspetti, ma tutti questi conducono ad analizzare la tendenza di fondo dell'espansione imperialistica statunitense nel Sud-Est asiatico. In effetti, nella misura in cui l'imperialismo francese si indeboliva sotto i colpi della rivoluzione vietnamita, si rafforzava la presenza americana. Gli Stati Uniti coglievano l'occasione della sconfitta della Francia per soppiantarla nella penisola indocinese. Il Nord Vietnam, confinato in un territorio troppo ristretto che non gli permette uno sviluppo rapido e consistente delle forze produttive, è costretto a subire l'espansione economica dell'imperialismo statunitense che, dilagando a macchia d'olio, finirebbe per assorbirlo.
L'insurrezione nel Sud Vietnam è l'unica risorsa che rimane a Ho Chi Minh per tentare di arrestare la marcia della penetrazione americana, una risorsa di difesa e non di attacco, impiegata, però, in condizioni peggiori di quelle createsi nel 1954. Gli Stati Uniti intervengono con tutta la loro micidiale potenza militare ed esperimentano, come se fosse una grande manovra, una grande prova, le nuove strategie antiguerriglia.
Malgrado il loro eroismo, i partigiani vietnamiti sono costretti a subire i metodi della repressione americana.
Essi stanno pagando duramente la mancanza di un movimento rivoluzionario nella classe operaia occidentale. È solo sul fronte della lotta di classe nelle metropoli imperialistiche che la guerra del Vietnam può significare una sconfitta per l'imperialismo. La vera lotta contro l'imperialismo deve essere combattuta dal proletariato.
"Il nemico è in casa nostra", denunciarono gli internazionalisti nel 1914. Noi riprendiamo la loro parola d'ordine, fedeli alla strada maestra del marxismo rivoluzionario.
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