Il 31 luglio è mancato a Genova Lorenzo Parodi. Nato nel 1926, operaio all’Ansaldo Meccanico e resistente nella lotta partigiana nelle fila del comunismo libertario, fondatore con Arrigo Cervetto del nostro partito nel solco del leninismo, teorico e dirigente rivoluzionario, Parodi è stato per trentaquattro anni, dall’aprile del 1977 sino a poche settimane dalla morte, il direttore responsabile del giornale “Lotta Comunista”.
18/09/2011 - Commemorazione di Lorenzo Parodi (da TG Rai Regione)
18/09/2011 - Commemorazione di Lorenzo Parodi (da Il SEcolo XIX)
All’inizio della vicenda del gruppo di uomini che darà vita a Lotta Comunista c’è la guerra mondiale imperialista, con la sua impronta indelebile sulle vite dei singoli, sulle classi e sulle psicologie sociali. In uno studio messo a disposizione per una ricostruzione della storia di partito, Parodi descrive i primi passi della sua iniziazione politica proprio a partire da quella condizione:
«L’apprendistato professionale precede il noviziato politico di un anno. Inizia all’Ansaldo Meccanico di Sampierdarena nell’estate del 1942, quando l’ultimo sforzo bellico produce l’infornata più cospicua delle nuove leve operaie. Bartolomeo Parodi, “battimazza” al reparto fucinatura del Meccanico, riferisce in famiglia delle richieste di manodopera; il figlio si presenta a compilare la domanda d’assunzione il cui modulo reca la voce “da chi siete raccomandato?”. Risponde: “raccomandato dal padre”. Assunto, lascia la piccola bulloneria di Nervi (primo lavoro a 14 anni) e si ritrova al reparto “macchine piccole” del Meccanico. Nella primavera del 1943, l’apprendista sente per la prima volta parlare di sciopero. Partecipa a quel momento di spontaneità operaia assistendo alle discussioni intorno alla figura e alle funzioni dei “fiduciari”. […] Le difficoltà di coniugare i tentativi di recupero “democratico” dei sindacalisti fascisti con il corso spontaneo della rabbia operaia, da tanto tempo compressa, diventano evidenti nella congiuntura politica del “25 luglio”. Al Meccanico, in questa circostanza, “fiduciari” e cronometristi sono associati al nemico di classe e cacciati dai reparti di lavoro. Da una finestra del reparto prende il volo il tavolo di lavoro dei cronometristi. […] È in questa occasione che […] chi scrive apprende così dell’esistenza di un comunismo “diverso” da quello stalinista della chiesa moscovita, ossia il comunismo libertario. Dopo l’“8 settembre” ci si viene a trovare tra l’incudine dei bombardamenti americani, responsabili della morte di vari compagni di lavoro anche al Meccanico, e il martello delle “retate” tedesche che fanno razzia di manodopera. Un giorno della primavera 1944, giunto a Sampierdarena per il turno dalle 14 alle 22, chi scrive è avvisato da amici che al Meccanico è in corso una “retata” per trasferire manodopera in Germania. Decisione istantanea: si riprende il tram per il ritorno a Nervi e ci si dà “alla macchia”».
La guerra, la fabbrica, gli scioperi del 1943, la via obbligata della clandestinità per sfuggire alla deportazione sono il dato oggettivo e anche il caso, in quelle circostanze storiche eccezionali in cui è precipitata tanta parte di una giovane generazione operaia. La ribellione a quella condizione, la scelta della lotta e della militanza di classe fanno parte invece del carattere degli uomini che scelgono di non subire, della loro tenacia e della loro passione rivoluzionaria. In una pagina dell’introduzione a “Cronache Operaie”, la raccolta delle sue corrispondenze di fabbrica degli anni Cinquanta per “Il Libertario” e per “Prometeo”, Parodi accenna a quei primi passi della sua vicenda politica, dalla ricerca iniziale nel comunismo anarchico sino all’approdo al marxismo e alla concezione leninista del partito. Costretto alla clandestinità, Parodi si unisce nel 1944 a un gruppo di compagni che «hanno dovuto fare una scelta politica», nel rifiuto della linea di «collaborazione nazionale» imposta da Togliatti appena approdato a Salerno. La scelta diventa «il comunismo libertario e internazionalista», contrapposto alla linea del PCI e alla sua obbedienza staliniana. Seguiamo Parodi: «A Genova esiste una tradizione libertaria e anarco-sindacalista che risale al processo di formazione del movimento operaio, alle peculiarità della Prima Internazionale in Italia, alle reazioni spontanee provocate dal marciume della Seconda Internazionale, quindi alle caratteristiche del primo dopoguerra rosso, quando una Camera del Lavoro importante come quella di Sestri Ponente era a direzione anarco-sindacalista».
La scelta di Parodi è legata a quella tradizione, ma soprattutto vale come «affermazione del rifiuto all’opportunismo togliattiano», nell’idea ancora confusa di «salvare il salvabile» delle energie di classe scaturite dalla Resistenza: «Il responsabile di queste “cronache” era dunque partito con l’idea di far tesoro di tutte le esperienze positive del movimento operaio nelle sue varie componenti e, strada facendo, si è accorto che il primo tesoro da conquistare è l’omogeneità teorica come scienza della rivoluzione. Si è accorto che se Marx aveva impiegato vent’anni per scrivere il “Capitale”, non tanti di meno ne occorrono per assimilarlo e comprenderlo appieno. Infine, nel processo collettivo di formazione, ha potuto appurare che se Lenin aveva dovuto impiegare le energie di una intera generazione di rivoluzionari per liberare il marxismo dalla mistificazione socialdemocratica, lo stesso problema e lo stesso impiego di energie si sarebbe posto a più generazioni per liberare il leninismo dalle mistificazioni dello stalinismo».
È proprio la ricerca di un altro comunismo che non fosse la soggezione a Mosca del PCI staliniano che mette in contatto Lorenzo Parodi e Arrigo Cervetto, tra il 1948 e il 1949. Il terreno d’incontro è il tentativo di Pier Carlo Masini e di Cervetto di raggruppare attorno ai giovani della FAI, la Federazione Anarchica Italiana, un movimento comunista libertario «organizzato e federato», che abbandonasse il «nullismo» individualista di tanto anarchismo tradizionale.
Anche Cervetto combina l’esperienza della fabbrica e della lotta partigiana, ma come altri del gruppo di Savona ha militato brevemente nel PCI; Parodi è tra i giovani del gruppo di Genova Nervi; un certo peso organizzato ha il gruppo di Sestri Ponente; Masini ha legami in Toscana e a Roma. Da qui nasceranno i GAAP, Gruppi Anarchici d’Azione Proletaria, e da quell’esperienza in una manciata d’anni Cervetto e Parodi matureranno la scelta per il marxismo e l’organizzazione leninista, mentre Masini rifluirà nel riformismo socialista e socialdemocratico.
Da quei primi passi, che sono l’atto di nascita del gruppo originario che darà vita a Lotta Comunista, non c’è tappa fondamentale nello sviluppo del partito che non abbia visto il ruolo dirigente di Parodi al fianco di Cervetto. Nel febbraio del 1951 il Convegno di Genova Pontedecimo è l’atto fondativo dei GAAP, ma già da un paio d’anni Cervetto con sempre maggiore sicurezza cerca nel marxismo, in “Stato e Rivoluzione” e nella teoria dell’imperialismo di Lenin le risposte sulla questione del potere rivoluzionario, sulla natura sociale dell’URSS e sull’«imperialismo unitario» che accomunava Washington e Mosca. Su quel consesso, quasi del tutto composto da operai e salariati, Lorenzo Parodi fa nel 1974 un’osservazione illuminante, cogliendo in quel tratto di classe «un peso determinante» nel superare le insufficienze iniziali: «Se quel convegno fosse stata un’iniziativa di intellettuali, la dialettica interna dell’organizzazione che si andava formando si sarebbe esplicata nella tolleranza delle differenze e dei dissensi soltanto per pura speculazione ideologica, determinando vere e proprie deformazioni di eclettismo teorico e conseguentemente un’inconsistenza organizzativa. Invece la nostra iniziativa fu subito caratterizzata dalla ricerca dell’omogeneità. Pur scontando le differenze di formazione ideologica che avrebbero ancora pesato a lungo nel processo di elaborazione teorica e lungo l’itinerario del nostro sviluppo organizzativo, avevamo compreso che soltanto ponendoci l’obiettivo di conseguire il massimo di omogeneità teorica e organizzativa avremmo potuto aprirci la via per la ricostruzione del partito di classe in Italia».
Nel 1951, il primo risultato nella ricostruzione del partito fu attestare quel primo nucleo organizzato nella battaglia per l’internazionalismo, contestando la menzogna di Yalta e denunciando nell’URSS e nel suo capitalismo di Stato uno dei blocchi dell’imperialismo unitario. Nel 1957, le “Tesi” Cervetto-Parodi sul ciclo di sviluppo dell’imperialismo e sulla «durata della fase controrivoluzionaria» diventano il fondamento strategico del partito. Già andava svanendo l’illusione che la crisi dello stalinismo, precipitata dai fatti d’Ungheria, potesse smuovere la base del PCI a beneficio dell’eterogeneo cartello raccolto attorno ad “Azione Comunista”. Ciò che per altri era un «fiume più grande», annota Parodi nella sua ricognizione storica, «noi dicevamo che era uno dei soliti torrentelli massimalistici a secco di prospettiva politica». Nella crisi del 1956 il PCI aveva perso 200 mila iscritti, ma il segno era il passaggio al PSI di una folta schiera di intellettuali: «la transumanza era dal monte al piano», ironizza Parodi, «nelle praterie offerte dal cosiddetto “neocapitalismo”».
Le “Tesi del 1957” ripartivano dalla necessità di collegare alla strategia la formazione dei quadri rivoluzionari, nei tempi lunghi del ciclo di sviluppo dell’imperialismo, e ciò cozzava con il «tempo psicologico» della tradizione impaziente del massimalismo. Quel punto fermo contro il «tatticismo attivistico» che aveva compromesso “Azione Comunista”, noterà Cervetto, segnerà la «seconda tappa» nella storia del partito.
La terza tappa, negli anni Sessanta, è legata proprio allo sviluppo capitalistico accelerato che le “Tesi” avevano saputo prevedere, e alle prime lotte spontanee nelle fabbriche che sarebbero culminate nei rinnovi contrattuali dell’autunno del 1969. A partire dalle lotte all’Ansaldo Meccanico nella ristrutturazione postbellica, Parodi si era assunta la responsabilità dell’indirizzo politico della tattica sindacale e dell’attività di fabbrica. Seguiamo ancora la sua ricognizione della storia di partito: «Dall’inizio del 1949, imperversava una ristrutturazione industriale che aveva il suo epicentro in Liguria con migliaia di licenziamenti richiesti ed effettuati. Le imprese intendevano liberarsi degli operai “improvvisati” del tempo della produzione bellica, per poi passare a nuovi sistemi produttivi basati sul risparmio di tempo sui quali ancorare i salari. Genova stava realizzando il “Piano Sinigaglia” della siderurgia a ciclo integrale. L’impianto relativo lasciava dietro di sé una scia di operai morti nei “cassoni” di riempimento per la sua costruzione sul mare. Non dimenticheremo mai quell’operaio morto, trascinato sopra un carretto a mano per le vie di Cornigliano e di Sampierdarena in segno di protesta. L’ILVA e l’Ansaldo erano in pieno ridimensionamento e i nostri compagni delle fabbriche ne erano direttamente coinvolti. […] Il [nostro] nucleo organizzativo che si formava era prevalentemente operaio e viveva la questione sindacale con viva partecipazione. La sua forma non poteva tuttavia ridursi all’estremizzazione dell’azione sindacale condotta dalla CGIL».
A nome della componente libertaria dei Comitati di Difesa Sindacale, Parodi dal 1951 fu delegato nel Comitato provinciale della FIOM di Genova, e dal 1956 al 1958 membro del Comitato direttivo nazionale della CGIL. Proprio l’insurrezione ungherese testimonia il senso di una battaglia che era politica, prima che sindacale. Nel settembre del 1956, intervenuto in un direttivo nazionale dove «il clima si era fatto di gelo», Parodi aveva contestato a Giuseppe Di Vittorio la copertura ipocrita all’intervento dell’URSS, denunciando in nome dell’internazionalismo proletario il massacro degli operai di Budapest, l’imperialismo di Mosca e il capitalismo di Stato russo. In quel vertice della CGIL, quella di Parodi fu l’unica voce internazionalista a levarsi contro la repressione staliniana: molto più di una testimonianza, perché quell’esempio restò un riferimento per la nuova generazione che di lì a poco sarebbe stata conquistata alla militanza leninista nel sindacato.
Il colossale sconvolgimento economico e sociale degli anni Sessanta, quando gli anni del “boom” spopolavano le campagne e attiravano milioni di immigrati nelle fabbriche del Triangolo industriale, fu la conferma che l’analisi dello sviluppo italiano aveva bisogno dei criteri scientifici della teoria marxista. Scrive Parodi nell’introduzione a “Critica del sindacato subalterno”: «Per noi l’analisi economica è inscindibile dall’azione del partito. Lo testimonia la nostra critica sindacale condotta negli anni ’50: se ci fossimo attardati ad equiparare i monopoli industriali a stagnazione, o alla denuncia di un presunto “capitalismo arretrato”, non avremmo potuto valutare che in brevissimo tempo il capitalismo italiano era destinato a raddoppiare gli obiettivi produttivi posti dal “Piano del Lavoro” della CGIL, senza alcun bisogno di adottare formalmente quel piano».
Le tesi di Antonio Gramsci sul capitalismo negli Stati Uniti, ricche d’intuizioni sociologiche anche se lontane dal metodo marxista, divengono nella riflessione di Parodi lo spunto per imbastire l’analisi del «canovaccio americano» nello sviluppo italiano: «Usando il metodo di Marx, la cui analisi del “Capitale” si è svolta nel paese capitalisticamente più maturo, noi non abbiamo intesa la lezione di “Americanismo e fordismo” in chiave di propaganda antiamericana in omaggio alla guerra fredda. “Americanismo e fordismo” era il riferimento per capire come sarebbe maturata una formazione economico-sociale prodotta da quel tipo di sviluppo e come si sarebbero sviluppati i rapporti di lavoro».
“Le prospettive del tradeunionismo”, nel 1970, lega la questione sindacale proprio all’analisi di quello sviluppo, ai mutamenti di proporzioni tra le classi e le frazioni di classe, alla «crisi di squilibrio» aperta dalla contraddizione tra quello sviluppo accelerato e l’arretratezza dell’apparato statale e del sistema dei partiti.
La possibilità che la «linea riformista del grande capitale» trovasse corrispondenza in una spinta tradeunionista nei sindacati, scalzando o indebolendo l’influenza interclassista dei partiti parlamentari, era un potenziale vantaggio tattico per il partito leninista. Era uno spazio che andava esplorato: nell’analogia con l’esperienza di Lenin, quelle lotte salariali potevano essere un «1905 economico», da afferrare per radicare in Italia un’organizzazione di partito sul modello bolscevico.
La rapida conclusione di quella stagione, nell’insufficienza della spinta tradeunionista e nel ritorno all’influenza parlamentaristica sui vertici sindacali, trascolora agli inizi degli anni Settanta nella «crisi di ristrutturazione». Si apre per Lotta Comunista una nuova fase, che è prima l’accento sul «compito generale» dell’organizzazione e poi, negli anni Ottanta, la battaglia per radicare il partito leninista nella maturità imperialista della metropoli italiana. Si trattava di afferrare, nella complessità del mutamento sociale, i fattori che potevano favorire l’azione di partito e il reclutamento alla politica rivoluzionaria, a partire dalla scolarizzazione superiore di massa e dal peso crescente nella produzione di impiegati e tecnici diplomati e laureati.
Quel mutamento andava però studiato, analizzato, collegato storicamente alle direttrici di lungo periodo dell’imperialismo italiano ed europeo. E il giornale “Lotta Comunista”, organizzando quello sforzo d’analisi, doveva essere attrezzato a quel compito, doveva proporre a una nuova generazione la scienza e l’organizzazione di Marx e di Lenin come partito dell’«ordine scientifico». È così che la nuova tappa nella vita del partito è anche una nuova stagione per Lorenzo Parodi, nello studio dello sviluppo italiano e nella direzione del giornale. Trent’anni di elaborazione sul fronte della battaglia nel sindacato, dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta, avevano prodotto più di 200 articoli e occupano tre volumi, “Cronache Operaie”, “Critica del sindacato riformista” e “Critica del sindacato subalterno”. Lasciata la fabbrica, nei successivi trent’anni gli “Studi sullo sviluppo del capitalismo italiano” impegneranno Parodi in altri tre libri, con oltre 260 articoli.
Per tre decenni Parodi ha setacciato ogni studio rilevante che sia comparso sullo sviluppo del capitalismo in Italia, sottoponendo ogni autore, ogni dato e ogni tesi alla critica della teoria marxista. Quando il campo è stato dissodato pressoché per intero, alle soglie del nuovo secolo, l’attenzione si è rivolta alle dinastie del capitale internazionale, con gli studi raccolti in “Grandi famiglie del capitale”, e soprattutto all’Europa. Un’elaborazione in gran parte ancora inedita, nell’ultimo decennio, si è indirizzata sulla finanza internazionale e sullo sviluppo del capitalismo in Francia: in questo modo Lorenzo Parodi ha potuto accompagnare anche l’esordio della «nuova fase strategica», con la nuova sfida che essa pone alla teoria marxista e all’organizzazione di partito.
Parodi è stato nel senso migliore operaio teorico, un carattere assente e del tutto anomalo nella tradizione italiana segnata dal massimalismo, semmai accostabile al «senso teorico» che è nei caratteri storici del movimento operaio tedesco, come nota Friedrich Engels. La figura minuta e il porgere disponibile non dovevano ingannare: Parodi aveva dentro un filo d’acciaio temprato nelle asprezze dei primi anni, e anche più avanti, di fronte alla nuova campagna stalinista di intimidazioni e calunnie che segnò gli anni Settanta, aveva sfoderato una sua capacità polemica tagliente e assai temibile. Nel tempo, le tante teorizzazioni e le tante miserie ideologiche che avevano accompagnato lo sviluppo dell’imperialismo italiano, dal ciclo del capitalismo di Stato al liberismo imperialista, sino al ritorno di vecchie suggestioni stataliste con la crisi ideologica della globalizzazione, avevano sollecitato il senso di divertita ironia con cui Parodi guardava al trafficato andirivieni delle scuole storiografiche e sociologiche.
Con l’orgoglio dell’operaio professionale, Lorenzo Parodi era stato fra i primi a familiarizzarsi con le tecnologie della scrittura elettronica. Negli ultimi anni, settimana dopo settimana, prima su “dischetto” e poi su “penna USB”, metteva a disposizione della redazione intere serie di articoli, sui Rothschild, sulla Compagnia di Suez, sul capitalismo francese, sugli archivi Pirelli, appena celando la soddisfazione per una capacità di lavoro ancora così feconda. Mentre illustrava gli elaborati, l’incalzare delle citazioni, dei dati, dei rimandi a testi di venti o trent’anni addietro, era una sfida alla preparazione della redazione.
La questione decisiva è però che quella elaborazione è stata strumento proprio della «omogeneità teorica e organizzativa» del partito, secondo l’intuizione del 1951, e appunto per questo legame tra scienza e partito essa ha contribuito a formare altre tre generazioni di militanti. Pontedecimo e l’internazionalismo nel 1951, le “Tesi” e la fondazione della strategia nel 1957, lo sviluppo e le lotte del «1905 economico» negli anni Sessanta, la «crisi di ristrutturazione» e il mutamento della maturità imperialista negli anni Settanta e Ottanta, la «nuova fase strategica» segnata dall’Europa e dall’Asia a cavallo tra gli anni Novanta e il nuovo secolo: Lorenzo Parodi è stato parte decisiva in tutte le stagioni della nostra storia di partito. Nell’ora del cordoglio, non crediamo di poter essere fraintesi se pensiamo alla sua lunga militanza, quasi settant’anni, come a una vita fortunata: nell’aver contribuito a radicare un partito in cui ha potuto vedere all’opera assieme ben quattro generazioni di militanti, e nell’averlo fatto proprio nella concezione del partito-scienza, saldando teoria e organizzazione.
Vale la prova a contrario. Nei militanti di Lotta Comunista sono fusi il combattente partigiano e il giovane operaio alla ricerca di un altro comunismo nell’idea libertaria, il lavoratore portato alla politica dalla lotta per il salario, il giovane attirato dall’«ordine scientifico» del marxismo nel degrado della società imperialista, ancora il giovane conquistato alla lotta internazionalista, in un’era di crisi, di guerre e di rivolgimenti internazionali. Fuori dall’organizzazione leninista, di quegli apporti non è rimasto nulla che sia politicamente vitale: imbolsito nella retorica il mito patriottardo della Resistenza, rifluite le suggestioni spontaneiste o sindacaliste, arruolate tra i quadri della borghesia o intontite nella suggestione dell’individualismo le successive leve giovanili sfiorate dalla passione politica.
Fortunato Lorenzo Parodi, ad aver speso un’intera lunga vita attorno a un principio di partito che si è rivelato vero e vitale, e ad averlo visto radicato nelle tre generazioni che gli si sono affiancate. Fortunati noi, ad aver beneficiato così a lungo della sua passione disciplinata.
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