jueves, 23 de febrero de 2017

Il nodo storico di 80 anni fa fra Bordiga e Gramsci: il problema della necessità e urgenza del partito rivoluzionario (Dante Lepore)

Dante Lepore, Inchiesta Operaia, Anno II, n. 4, novembre-dicembre 2000Pubblicato anche in Facebook, 16/02/2017


La rottura con il riformismo opportunista e con il centrismo come problema dei tempi

Le tragiche conseguenze della prima guerra imperialistica mondiale sul proletariato europeo accelerano, nel movimento operaio, sia pure in modo faticoso, la coscienza della natura opportunista del riformismo. Nel corso della carneficina della guerra e nell'infocato dopoguerra maturano le condizioni per la storica rottura nel socialismo della II Internazionale e per la nascita dell'Internazionale Comunista.
L'articolo originale di dante Lepore - Cliccare
In Italia, la coscienza della profonda divaricazione tra gli interessi e le speranze rivoluzionarie delle masse lavoratrici da una parte e le dirigenze del socialismo e del sindacato riformista dall'altro, si era manifestata solo in ristretti gruppi di avanguardie, formandosi nel corso di cocenti sconfitte e della conseguente demoralizzazione durante lotte di carattere di per sé difensivo. E' noto come questa coscienza non trovò un partito già presente ed esperto a cui saldarsi, che fosse in grado di sfruttare le sconfitte della borghesia italiana come quella di Caporetto o le incertezze dell'apparato statale nel mediare gli scontri tra le frazioni borghesi nell'agitato dopoguerra.

Nel 1915 il Partito Socialista era riuscito, ancora una volta, a tenere insieme anche le sue correnti interne più risolutamente internazionaliste, facilitando la mobilitazione del proletariato italiano in guerra. Se non più direttamente con il mito patriottico della difesa della patria, la classe operaia fu distolta dalla propria naturale vocazione internazionalista da una forma di neutralismo antimilitarista e pacifista sintetizzata nella formula del centrista G. M. Serrati "né aderire né sabotare la guerra". Già allora occorreva una decisa rottura con le dirigenze dei partiti socialisti divenuti opportunisticamente difensori di strati ristretti di aristocrazie operaie nei paesi imperialisti maggiori nonché espressione sociale di una massa di professori, intellettuali e burocrati. Tale tattica ipocrita in realtà assecondava la componente "neutralista" del capitalismo italiano, mentre un'ala "massimalista" del PSI si coagulava nell'interventismo mussoliniano.

Nel 1917, quando la rivoluzione trionfava in Russia e l'esercito italiano era in rotta a Caporetto, mentre Torino insorgeva nell'agosto contro il carovita meritandosi l'appellativo di "Pietrogrado d'Italia", neppure allora nascerà un partito comunista. Nell'infocato dopoguerra continuava il tradizionale balletto di correnti gestito dal centrismo di Serrati.

Un gioco delle parti già vissuto nel socialismo italiano in occasione della precedente guerra di aggressione coloniale alla Libia: la classe operaia italiana era stata allora aggiogata agli interessi del Banco di Roma nel nord Africa, ossia di Papa Pacelli e del Vaticano, con l'ala destra del PSI (Bissolati, Bonomi, Podrecca) su posizioni apertamente interventiste, poi ipocritamente espulsa, mentre altri socialisti inneggiavano all'"Italia proletaria" in cerca del suo posto "al sole". Un appoggio sostanzioso alla guerra scambiato con la concessione del suffragio elettorale maschile, poca cosa se si pensa che sei anni prima il proletariato in Russia aveva ottenuto il suffragio universale anche per le donne nel corso della rivoluzione del 1905, e una democrazia reale nella forma dei primi soviet. 

Bordiga e Gramsci di fronte alla questione dei tempi 

Situato in questo contesto, si può comprendere il ruolo delle due figure di rivoluzionari che hanno animato la formazione del Partito Comunista d'Italia, Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci. Col senno di poi, che avvantaggia noi assolvendo in parte quei militanti, possiamo constatare che entrambi difettarono nel risolvere la questione più importante in una battaglia strategica rivoluzionaria, quella dei tempi. Ma viceversa, se porre oggi il problema dei tempi del partito rivoluzionario ci avvantaggia dell'esperienza di allora, non ci assolverebbe dall'accusa di tradimento una sottovalutazione di tale problema per il prossimo ciclo delle lotte di classe.

La rispettiva formazione teorica e politica è differente e persino opposta, anche se per alcuni versi complementare. Gramsci arrivava al movimento operaio da quell'intellettuale di vasta cultura che era, fortemente segnato dall'intuizionismo bergsoniano, dal volontarismo di Sorel, dal neo idealismo di Croce e dall'attualismo gentiliano. Nell'ottobre 1914 il suo "attivismo" era in sintonia con quello del socialista rivoluzionario Mussolini, fautore della "neutralità attiva ed operante":
"I rivoluzionari concepiscono la storia come creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di strappi operati sulle altre fasce attive e passive della società, e preparano il massimo di condizioni favorevoli per lo strappo definitivo (la rivoluzione)" (A. Gramsci, Neutralità attiva ed operante, in Il grido del popolo, 31 ott. 1914).
Dunque un ritardo notevole rispetto all'internazionalismo della "Sinistra di Zimmerwald" e di Kiental. Ancora nel novembre 1917, Gramsci interpretava la rivoluzione bolscevica come una creazione della "volontà" contrapposta a quello che egli vedeva come il determinismo economico di Marx definito come "positivista":
"[i bolscevichi] rinnegano C. Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si poteva pensare e si è pensato". " [ Essi, i bolscevichi] vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche". Pertanto, per Gramsci, "massimo fattore di storia" non sono "i fatti economici bruti" ma "la volontà degli uomini, motrice dell'economia, plasmatrice della realtà oggettiva, che vive e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace". (A. Gramsci, La rivoluzione contro il Capitale, in Avanti!, 24.11.1917).
Sei giorni prima, alla riunione della sinistra rivoluzionaria a Firenze, nel clima della ritirata di Caporetto, era stato Bordiga a sostenere che, constatata la disfatta dell'esercito borghese e lo sbandamento dello Stato, mentre il proletariato era armato, fosse necessario "agire", mentre Gramsci, presente alla riunione, ma isolato, taceva.

In quel momento Bordiga aveva al suo attivo più solide credenziali in senso rivoluzionario. Da anni era un dirigente della gioventù socialista che con il giornale L'Avanguardia era su posizioni rivoluzionarie rispetto al socialismo dei "professori". Nel 1914, a differenza di Gramsci, teneva testa a Mussolini che si avviava verso l'interventismo nazionalista. Era già un marxista roccioso e intransigente, anche se fortemente dottrinario e determinista, non esente, lui sì, da influenze positivistiche, come accadeva per molti dirigenti dei partiti della II Internazionale, da Kautsky alla Luxemburg. Ma, mentre Gramsci coltiverà fino all'occupazione delle fabbriche la speranza di un recupero dei dirigenti socialisti alla causa rivoluzionaria, Bordiga, che non nutriva certo alcuna fiducia né nel riformismo né nel massimalismo del PSI, neppure lui si rendeva conto che il momento di rompere con il centrismo opportunista di Serrati era proprio quello e si trincerava nella posizione astensionista, problema non solo secondario in quel momento, ma soprattutto ancora poco sentito dalle grandi masse e dalla stragrande maggioranza del PSI comprese le frange di esso più rivoluzionarie. Egli perse così tempo prezioso, determinando un isolamento e indebolimento della propria più giusta posizione nel PSI, proprio quando l'opposizione al riformismo si era fatta più vivace in quel partito.

Così, un problema, che si poneva di fatto nel 1917, veniva rinviato ad un altro momento, e si sarebbe risolto nel 1921 con la scissione di Livorno. La classe operaia andò all'occupazione delle fabbriche coltivando, nell'insieme, un'illusione tragica nei dirigenti riformisti del PSI e della CGL. Dopo che lo slancio operaio aveva toccato il culmine con lo "sciopero delle lancette" nell'aprile 1920, l'occupazione delle fabbriche in settembre sarà pesantemente condizionata e gravata da questa mancata chiarificazione nella maggioranza combattiva degli operai circa la natura controrivoluzionaria del centrismo. Quest'ultimo non avrà ostacoli formali nello svolgere il suo ruolo frenante e l'occupazione si svolgerà all'insegna del già incipiente riflusso.

Noi che oggi lavoriamo con forze assai modeste per ricostruire l'unità della classe frammentata da decenni di settarismi non possiamo fare a meno di sottolineare che questa unità operaia non potrà mai realizzarsi con l'opportunismo riformista, capace di camuffarsi e adeguarsi ai tempi e il cui ruolo, allora come oggi, resta quello di ostacolare l'accumulo della potenza propria del proletariato. 

Bordiga e Gramsci di fronte all'esperienza dei Consigli 

Certamente, se la classe operaia andò verso l'esperienza, inedita per l'Italia, dell'occupazione delle fabbriche senza una guida teorica, strategica, organizzativa, la storia neppure si fa con i se e con i ma. Anche solo per questo sarebbe inutile chiedersi se si potesse fare di più e meglio. Più interessante è forse tentare una valutazione di quanto di originale ha espresso quel momento della lotta di classe in Italia, a prescindere dai suoi stessi limiti e in parte proprio grazie ad essi. Non c'è dubbio che Torino, grazie a una tradizione iniziata anni prima con le commissioni interne, abbia espresso nei Consigli di fabbrica un elemento di novità, se non proprio di rottura radicale, rispetto alla gestione riformistica tradizionale della CGL nei rapporti sindacali tra capitale e forza-lavoro. L'Ordine Nuovo, e in particolare Gramsci, intravede in essi la possibilità che la classe operaia, al culmine della propria esperienza di lotta contro il potere dispotico del capitale, riesca finalmente ad oltrepassare la limitatezza della semplice azione sindacale, incapace per sua natura di uscire da quei confini della contrattazione che non intaccano la base del regime dispotico della fabbrica su cui si fonda la disciplina del capitalismo estesa poi a tutta la società. La coercizione esterna alla volontà dell'operaio, come sottolinea Marx, non deriva certo dalla personalità del singolo capitalista, ma dal processo oggettivo di valorizzazione del capitale. Per questo non può esserci emancipazione giuridica, morale, culturale, religiosa, in un sistema di produzione capitalistico, che non passi attraverso l'emancipazione dal dispotismo produttivo della fabbrica, dalla sua organizzazione dispotica del lavoro. Molto lucida fu a suo tempo la denuncia, da parte degli ordinovisti, di quel "personale di amministrazione di fiducia" che è la burocrazia sindacale, tutta presa dalle compatibilità, dalle regole della contrattazione che in alcun modo pongono in discussione la funzione dell'altro concorrente, il capitalista. Sono notazioni che oggi tornano di attualità, se già 80 anni fa la classe operaia torinese ha preso coscienza dei forti limiti della contrattazione e del suo ruolo essenziale al mantenimento del regime dispotico dell'organizzazione capitalistica del lavoro. Ma Gramsci si era pure illuso che i consigli di fabbrica potessero, di per sé, "prefigurare" la "società futura", ossia che essi potessero da soli, restando nell'ambito di un'autonomia gestionaria da produttori, addestrare la classe operaia a diventare la forza "dirigente" capace di organizzare e amministrare la produzione in senso socialista. Bordiga lo aveva capito benissimo:
"A Torino si è sopravvalutato il problema del controllo operaio intendendolo come una conquista diretta che il proletariato, col nuovo tipo di organizzazione per azienda, può strappare alla classe industriale anche prima della conquista del potere, di cui il Partito è l'organo specifico. Compito dei comunisti è utilizzare anche la tendenza al controllo operaio, dirigendola contro il bersaglio centrale, il potere di stato del capitalismo" (Il Soviet, 2.02.1920). L'evoluzione degli avvenimenti ha certamente dato torto a questo sogno gramsciano. La classe operaia ha dimostrato certamente, in settembre, che il "padrone" non è affatto indispensabile sul piano tecnico ai fini dell'esercizio della funzione di direzione del processo produttivo, della distribuzione e dello scambio.
Ma che fosse possibile, accantonando il problema del partito rivoluzionario e ciò che questo comportava in termini di rottura con il centrismo, che il proletariato potesse spezzare il dispotismo del capitale restando confinato nella gestione di un illusorio controllo operaio dentro l'azienda, questa fu una tragica illusione di molti. Chi non si illuse fu, non a caso, proprio il capo del governo, Giolitti che, nelle sue Memorie della mia vita, ebbe a scrivere:

"Io ebbi, sin dal primo momento, la chiara e precisa convinzione che l'esperimento (l'occupazione delle fabbriche) non avrebbe potuto fare a meno di dimostrare agli operai l'impossibilità di raggiungere il loro fine…Perciò ero fermamente convinto che il governo dovesse lasciare che l'esperimento si compisse…Ammettendo anche che io fossi riuscito ad occupare le fabbriche prima degli operai, ciò che sarebbe stato almeno assai difficile considerata l'ampiezza e l'universalità del movimento, mi sarei poi trovato nella assai poco comoda condizione di avere pressoché la totalità della forza pubblica, Guardie Regie e Carabinieri, chiusi nelle fabbriche; senza quindi i mezzi di mantenere l'ordine fuori delle fabbriche, cioè nelle strade e nelle piazze nelle quali gli operai si sarebbero rovesciati, ed avrei in tal modo fatto precisamente il gioco dei rivoluzionari, che non avrebbero domandato niente di meglio" (Milano 1945, pp. 597-600).
Che molti si illudessero potrebbe essere il minor male in assenza di altrettanta illusione nel proletariato. Fatto sta che proprio il fallimento dei Consigli nel loro esperimento di organi autosufficienti del proletariato è la prova dell'impossibilità che ogni esperimento del genere possa fare a meno dell'esistenza di una coscienza teorica, realistica e strategica dell'urto diretto contro lo stato. Il gruppo dell'Ordine Nuovo, anche dopo il fallimento del proletariato con l'occupazione generosa delle fabbriche, continuerà, come per inerzia, a credere nella possibilità di raddrizzamento del partito socialista, mentre Lenin, nell'autunno 1920, non si preoccupa dell'uscita dei comunisti paventata da Serrati per il conseguente indebolimento del PSI, dei sindacati, delle cooperative e dei comuni, bensì mette in guardia dal "sabotaggio della rivoluzione da parte dei riformisti. Dato il momento in cui si prospettavano battaglie decisive del proletariato contro la borghesia per la conquista del potere statale, "è assolutamente indispensabile allontanare dal partito i riformisti, i turatiani, ma può essere utile persino allontanare da tutti i posti di responsabilità anche degli eccellenti comunisti suscettibili di tentennare e che manifestano esitazioni nel senso dell''unità' con i riformisti… Il partito non si indebolirà, ma si rafforzerà cento volte di più".

Gramsci di questa esperienza non farà tesoro neppure negli anni successivi. Ancora il 15.3.1924, ripensando la vicenda che portò alla scissione di Livorno, ne vedrà una sconfitta nel suo carattere minoritario e dunque prematuro: 
"Fummo sconfitti perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque avessimo dalla nostra parte l'autorità e il prestigio dell'Internazionale, che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costitutivi del partito socialista, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20…Fummo -bisogna dirlo- travolti dagli avvenimenti". 
Dante Lepore
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