miércoles, 4 de enero de 2017

Le radici della guerra (Michele G. Basso)

Michele G. Basso, Sotto le bandiere del marxismo, 26 dicembre 2012

C'est l'argent qui fait la guerre

Il motto francese è molto più realistico di quanto si creda.

La guerra odierna non è frutto della malvagità della natura umana, di motivazioni psicanalitiche, di darwiniane selezioni.

L'aggressività naturale può spiegare una scazzottata tra due giovani per una ragazza, o anche una coltellata tra vicini, non  certo la metodica devastazione e il continuo assedio alle popolazioni civili. Tanto meno il vile, freddo e criminale utilizzo dei droni, che presentano le vittime come bersagli virtuali, da colpire a migliaia di chilometri di distanza. La guerra d'oggi è un frutto raffinato della “civiltà”, è un prodotto totalmente artificiale.

Non si cerchi a giustificazione dei conflitti l'anelito di libertà, il desiderio di difendere la propria nazione, la propria civiltà, anche se questi motivi sono comunemente addotti da stampa e governi. Neppure è determinante il desiderio di vedere grande e potente il proprio paese, o di creare un grande impero, anche se nell'ideologia della  guerra questa motivazione acchiappa- citrulli è sempre presente. Non sono elementi centrali neppure i diabolici piani dei dottor Stranamore di regime, di cui vengono diffuse versioni diverse, insieme con piani di complotti e di colpi di stato. Pure ideologie militariste  sono la caccia ai terroristi e la difesa dei valori occidentali. Quanto all'emancipazione delle donne afgane, affidata ai signori della guerra, è uno dei più vergognosi inganni. Le poche donne libere sono continuamente oggetto di minacce di morte, più che da parte talebana,  proprio da parte dei suddetti signori della guerra.  Nelle guerre di Libia e di Siria gli odiati jihadisti di al Qaida sono stati rinominati orwellianamente opposizioni democratiche, il che rivela pienamente la strumentalità della politica americana e della Nato.

Non dobbiamo farci influenzare dai giornalisti. Non parliamo dei pennivendoli di regime, ma di quelli che, pur facendo  correttamente il loro mestiere,  tuttavia si basano  su metodi empirici o idealistici, e vedono la radice della guerra nella volontà dei governi o nelle dichiarazioni d'intenti di gruppi sciovinisti. Costoro, al massimo, sono gli esecutori o le mosche cocchiere di decisioni prese altrove. L'autonomia di decisione che potevano avere un Bismarck o un Napoleone III è scomparsa. Non è più il capo dello stato o del governo a decidere la guerra. Se è contrario, o si adegua, o si suscita uno scandalo per destituirlo, quando non si procede più sbrigativamente come con Kennedy.

Più vicina alla realtà è la teoria del complesso militare industriale, come fu formulata nel 1961 da Eisenhower nel discorso di addio alla nazione. Parlò di un intreccio di affari e d'interessi tra gruppi industriali, rappresentanti politici e direzione delle forze armate, e l'additò  come un pericolo per il paese. Già nel 1934, tuttavia, il Senato aveva nominato la Commissione Nye, che doveva indagare sull'influenza dell'industria delle munizioni nell'ingresso in guerra degli Stati Uniti nel 1917, ma la commissione non poté concludere i lavori per il boicottaggio dei democratici.

Questa teoria si avvicina alla verità, ma non la coglie pienamente, perché si sofferma soprattutto sull'aspetto corruzione, influenza dell'industria sulla politica e sui militari.

E' vero che  i fornitori, non solo di armi, ma anche di vestiario e cibo,  hanno modo di far lievitare i prezzi, di proporre nuove costose soluzioni tecniche, mirabolanti nuove armi spesso fasulle, che hanno l'invariabile risultato di far crescere il bilancio militare, tanto paga il contribuente. Sono questi i veri militaristi, sono questi parassiti i peggiori nemici dell'umanità. Per loro è indifferente che si vinca o si perda, che lo stato imperialista accresca il suo raggio d'azione o s'impantani in un'avventura senza fine, per loro è importante avere un mercato assicurato per anni, se non per decenni, e che la loro sporca attività speculativa non abbia fine. Quando lo stato imperialista si trova di fronte a un genio militare come Giap e a eroici guerriglieri, può fare una pessima figura, e la propensione verso la guerra per un certo periodo si attenua. Ma il complesso militare industriale non demorde, diventa critico dell'avventura militare precedente, che – a suo dire - sarebbe fallita, non per insipienza dei capi militari o dei politici, ma perché non si sarebbero usate armi abbastanza moderne, e questo è il punto di partenza per una nuova corsa agli armamenti, giustificata da pericoli veri o inventati, poco importa. La guerra non è più la continuazione della politica con altri mezzi, diventa la continuazione della speculazione. Decisivo non è più vincere  o perdere, ma scaricare sull'avversario  milioni di tonnellate di materiale, che dovranno sostituire a spese del contribuente.

Bisogna avere chiare queste nozioni, altrimenti si corre il rischio di lottare contro i fantasmi di rappresentanti puramente ideologici della guerra, di lottare contro i burattini invece che contro i burattinai.

Il paese che cade preda di queste sanguisughe deperisce a vista d'occhio. Il tenore di vita dell'americano medio è crollato, sparita la solida aristocrazia operaia, la spocchiosa classe media spesso costretta a lasciare le comode case per una tendopoli.

Tutto questo è vero, ma non siamo ancora giunti alla radice della guerra.

Per capire il problema giova rileggere l'Introduzione a “Per la critica all'economia politica”:

“La produzione non produce... solo l'oggetto del consumo ma anche il modo del consumo, non solo oggettivamente, ma anche soggettivamente. La produzione crea il consumatore... L'oggetto artisticio  - e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto – crea un pubblico capace di godimento estetico... La produzione produce ...il consumo 1) creandogli il materiale; 2) determinando il modo del consumo 3) producendo come bisogno del consumatore i prodotti che essa ha originariamente posto come oggetti. Essa produce perciò l'oggetto del consumo, il modo del consumo e l'impulso al consumo”. Questo vale per ogni produzione, per ogni sistema economico sociale.

Lo stesso capitalismo, nelle sue fasi rivoluzionaria e progressiste, produce innumerevoli oggetti e bisogni di consumo che costituiscono reali miglioramenti del tenore di vita e del livello culturale.

Ma l'industria  capitalistica, soprattutto nella fase reazionaria, imperialistica, crea anche bisogni molto negativi, malsani per il fisico e per le attività psichiche, dalla diffusione della droga all'alcolismo di massa.

Quella degli armamenti è una necessità implicita in ogni stato, date le radici di classe, e non esistono stati disarmati, neppure il Vaticano.

L'industria, creando sempre nuovi ordigni, crea un continuo bisogno di aggiornamento, non si può rimanere indietro rispetto agli stati concorrenti. Questo bisogno creato dall'industria va ben oltre le pressioni delle lobbies, gli intrighi dei parlamentari e degli industriali del settore militare. E' l'industria capitalistica che crea i bisogni militari, e con essi indirettamente dà origine ai gruppi di pressione, ai nazionalisti sfegatati, ai dottor Stranamore. Nella visione comune questo processo è capovolto, e gli apologeti della guerra sono visti come la causa prima del militarismo.

Chi ha la supremazia militare lotta per mantenerla, anche quando l'economia del paese non supporta più una spesa così gigantesca. Lo stesso  progresso tecnico condanna gli stati alla concorrenza spietata. La lobby, che cerca di stornare spese a favore di un industria, piuttosto che di un'altra, col suo parassitismo impone strumenti pletorici e non sempre efficienti, aerei equivalenti a bare volanti, e in realtà ritarda e intralcia lo sviluppo militare del proprio paese. Insistere troppo sul fattore corruzione come fattore della corsa agli armamenti allontana dalla comprensione del fenomeno. La radice del militarismo è il capitale stesso.

Le esigenze del capitale non corrispondono necessariamente a quelle militari. Ogni nuova invenzione, rendendo obsoleti moltissimi armamenti, crea la necessità di svuotare i magazzini, liberandosi delle vecchie armi. Per giustificare di fronte alla sempre ingannata opinione pubblica le nuove spese, s'improvvisa una guerra pretestuosa come quelle di Israele contro Libano e Gaza, in cui s'impiegano quantità di materiale bellico assolutamente sproporzionate allo scopo militare, ma perfettamente funzionali a quello dell'industria. In queste  guerre vengono impiegate le ...penultime novità, mentre le nuovissime entrano nella catena produttiva. Il capitale si misura più che altro con se stesso, e il risultato militare può essere misero. Israele nel 2006 non riuscì a sterminare gli Hezbollah, anche se provocò un numero altissimo di “effetti collaterali”, cioè di civili massacrati.

La guerra industriale si differenzia sempre più dall'arte militare in senso stretto, e s'afferma sempre più la figura del generale affarista, che arricchisce la propria industria di riferimento, ma  colleziona disastri sul piano militare.

Non è il solo caso in cui la produzione capitalistica non è funzionale alle esigenze che pretende di salvaguardare. Si pensi al settore sanitario, dove si affermano bisogni sempre più artificiosi, a cominciare dagli psicofarmaci somministrati ai bambini.

Il capitalismo impone consumi sempre più artificiosi, distruttivi dell'ambiente, della salute fisica e psichica, delle esigenze di pace della popolazione.  E' ora di liberarsi di questo mostro.

Michele Basso
26 dicembre 2012
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