domingo, 10 de enero de 2016

L’imperialismo nel grande gioco nord africano (Dante Lepore)

Dante Lepore, Ponsinmor - Fonte: Parte 1 - Parte 2 - Parte 3


L’imperialismo nel grande gioco nord africano (I parte)

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Nel saggio appena pubblicato nelle nostre edizioni (Decadenza del capitalismo e regressione sociale, PonSinMor, 2011) osservavo, in più occasioni, che è possibile comprendere i processi reali fino a quando la confusione, «sempre più alimentata ad arte», resta ancora diradabile (p. 147). Subentrano infatti, nelle inevitabili convulsioni delle crisi, le vere e proprie menzogne di guerra da cui è più difficile restare immuni, specie in un contesto in cui quello dell’informazione diventa uno strumento primario fino ad evolvere in arma di guerra (ciberguerra, guerra informatica, guerra mediatica, ecc.), come dimostrano le vicende dell’11 settembre 2001.
Sottolineo questo concetto perché l’insorgenza sociale che scuote il Nord Africa, a dire il vero neppure tanto improvvisa, ma largamente anticipata nel corso di un decennio, assume già livelli di manipolazione ed è filtrata negli schemi della propaganda in modo tale che la percezione del fenomeno e i suoi insegnamenti vadano nel senso di «aspirazioni alla modernizzazione, alla democrazia e alle libertà borghesi» contro regimi dittatoriali obsoleti, piuttosto che come esplosione di rivendicazioni proletarie (che ne sono ovunque con tutta evidenza le protagoniste) ad un mondo migliore.

Per i portavoce coscienti e per i tromboni beceri a vario titolo delle ideologie dominanti, ossia degli interessi imperialisti neocoloniali a vario titolo, occorre che il Nord Africa si doti di governi più consoni, più democratici, più partecipativi e rappresentativi, rispetto alle popolazioni, più agili ed efficienti, per poter continuare a svolgere il ruolo della vecchia borghesia compradora o dei tirannelli postcoloniali, garantire la stabilità e i flussi energetici e finanziari, e in qualche caso, offrire l’opportunità di riconfigurare i rapporti di potenza tra gli imperialismi e ancor più tra i gruppi economico-finanziari concorrenti nella zona nevralgica del vicino e medio oriente. Perciò usano l’informazione per focalizzare l’attenzione su aspetti esteriori, distogliendola dalla sostanza, ossia dalla connessione di queste insorgenze nel contesto della crisi sistemica che il capitalismo mondiale in decadenza sta attraversando [1].

Molta sinistra anche attenta e intelligente sta cadendo in questo tranello, non si accorge che tutta la propaganda imperialista è centrata ancora una volta sul concetto fasullo del primato della politica e sul ruolo dell’individuo politico tiranno (che spara sulla popolazione) nel determinarne l’indignazione. Nella realtà, i tromboni ideologhi del capitalismo cercano di occultare il fatto che i sussulti sociali in atto sono la conseguenza dello stesso processo che dalla crisi dei subprime in America si è snodato in tutto il mondo, attraverso i salvataggi delle banche e conseguente rigonfiamento della bolla di capitale fittizio, la crescita esponenziale dell’indebitamento degli Stati fino al default  di quelli oggettivamente più deboli, come appunto quelli dei tiranni nordafricani, tanto ricchi quanto pressati dal debito pubblico.

L’inganno non è di poco conto, considerando che nel presentare gli avvenimenti in corso soprattutto nel Maghreb, ma poi anche nel Mashreq (Egitto e Giordania), sono stati letteralmente ignorati gli ingredienti essenziali che hanno portato le popolazioni sul terreno della rivolta. Il libro citato è stato redatto partendo da un assunto fondamentale per l’analisi dei fenomeni sociali, secondo una metodologia che ci viene dalla concezione materialistica della storia. Per com-prendere ciò che è specifico, bisogna preliminarmente individuare ciò che è comune ai differenti fenomeni. Per com-prendere un particolare, bisogna conoscere l’insieme o il sistema di riferimento, è una necessità di metodo elementare nella scienza. Con questo criterio, tutti gli aspetti analizzati (i ritmi dell’incremento demografico, dell’urbanizza-zione, degli effetti del capitale fittizio sulla crisi mondiale, sulla corsa alle fonti energetiche, sul saccheggio del territorio agricolo, sulla non riproduzione capitalistica della forza-lavoro, e le conseguenze, sia in ter-mini di migrazioni che di sicurezza da parte degli apparati statali nell’inevitabile guerra sociale) ci hanno portato alla conclusione che il fenomeno tellurico era già in atto e meritava di essere studiato nelle sue specificità e nelle dinamiche che veniva assumendo. Non esistono «fattori» nella storia, ossia cause che determinano in modo univoco i fenomeni che stiamo vivendo, semplicemente perché tali fattori sono a loro volta «fatti», ossia effetti di altre complesse determinazioni. Esistono nella storia momenti in cui l’insieme dei fatti si intensifica e tende a surriscaldarsi fino a esplodere, e questo è uno di quei momenti che mettono in crisi gli osservatori.

Abbiamo sentito ripetere fino all’ossessione (specie in Italia dal ministro Maroni) che la rivolta tunisina e i suoi effetti sociali e politici non erano prevedibili. In realtà, non si trattava di «prevedere», ma se mai di prendere atto (dopo l’allarme della FAO sui rischi di rivolte sociali a seguito dell’aumento dei prezzi alimentari in media del 50%) di ciò che sta accadendo in varie parti del mondo, e colleghi di Maroni e Frattini, funzionari di potenze imperialiste un po’ meno straccione di quella italiana, stavano già predisponendo strumenti per inserirsi nel gioco che si apriva: vedi gli USA con la creazione, da qualche anno, dell’Africom, con una forza permanente di circa 1.800 uomini, una base navale in Kenia e altre due in Etiopia e una in Uganda e prospettiva di espansione dove fluiscono il petrolio e il gas naturale e le materie prime energetiche necessarie all’elettronica e informatica [2] , e a supporto strategico di una politica tendente ad un rientro nel continente nero in difesa di interessi vitali di fronte ad Europa e Cina, e sotto la solita copertura dell'aiuto umanitario, lotta al terrorismo e mantenimento della pace. Anche le potenze europee, per quanto in ordine sparso, sono presenti nel continente nero, nonché in Medio Oriente, come la Germania a caccia del gas angolano dopo quello nigeriano, in concorrenza con la Cina, o come la Francia a caccia dell’uranio nigeriano, in concorrenza praticamente con le altre maggiori potenze. Ma il gioco sulle materie prime in Africa è davvero grande e la crisi mondiale, che si riversa sugli apparati statali indebitati e in preda ai conflitti sociali, lo renderà sempre più accanito. 

Ora, la stessa osservazione sulla prevedibilità di quanto è accaduto ci viene da un’interessante intervista allo storico e demografo francese Emmanuel Todd [3], che sostiene di aver, lui sì, «previsto» gli eventi nord africani già nel saggio, scritto con Y. Courbage, L’incontro delle civiltà, nel 2007. Todd rivendica altresì di aver «anticipato» l’implosione dell’URSS nel 1976, per via che il tasso di mortalità infantile dalla fine degli anni ’60 era cominciato a risalire, e di aver previsto addirittura l’attuale crisi, definita immancabilmente «finanziaria», dal 2002, con l’osservazione (che, a rigore, strettamente demografica non è) che «i servizi finanziari, le assicurazioni, l’immobiliare crescevano due volte più velocemente dell’industria, mentre il debito montante mostrava una disconnessione con la realtà». Per Todd la «prevedibilità» degli eventi maghrebini deriva dall’applicazione degli «indicatori classici dell’analisi culturale»: il tasso di alfabetizzazione, specie nei giovani di 20-24 anni, il tasso di fecondità, «che mostra il controllo che la gente ha sul proprio destino». La combinazione di questi indicatori costituisce il grado di «modernizzazione mentale», unica «condizione educativa» che consente all’umanità di controllare le nascite e generalizzare l’osannata democrazia. Todd rivendica la fertilità euristica del suo metodo, che consentirebbe, a suo dire, di vedere i «cambiamenti di mentalità» delle popolazioni, superando i limiti dell’ossessione «economicista» centrata sui parametri economici del PIL e degli scambi commerciali.

Ora, non è qui la sede per una discussione metodologica sulla validità scientifica dell’uso di certi parametri piuttosto di altri (specie per quanto attiene al PIL, ai suoi limiti e ai suoi metodi di rilevazione, in relazione o meno al potere di acquisto, ecc.) in economia come in altri campi, quali indicatori o meno dello sviluppo sociale. Allo stesso modo sarebbe da discutere il criterio col quale Todd ignora e elude la natura economica degli indicatori demografici [4]. La preoccupazione neo-malthusiana di raggiungere attraverso il controllo delle nascite «una popolazione stazionaria, un mondo in equilibrio» [5], come antidoto al sottosviluppo persistente, sottende il ragionamento del demografo francese che, alla miseria, alla fame, all’abissale forbice dei redditi, contrappone il suo significato di progresso:… fare meno figli!

Ribadiamo la natura inscindibile dei fenomeni storici reali e il carattere interconnesso (dialettico) dei rapporti tra cause ed effetti. Per ricostruire un fenomeno sociale nel suo movimento e individuarne le tendenze, il vantaggio di distinguere ciò che è comune e ciò che è peculiare, ciò che è strutturale e ciò che è mutevole, è solo di carattere pratico e di solito i risultati che si ottengono hanno carattere di oggettività. Da Todd si ricava che i cambiamenti di mentalità della «gente» connessi all’alfabetizzazione, specie femminile, con conseguente riduzione del tasso di fecondità, spingerebbero alla modernizzazione, provocando lo sconquasso dei regimi. Con questo criterio, Todd spiega le rivoluzioni, da quella inglese del Seicento a quella francese del 1789, alla «primavera dei popoli» del 1848 alla rivoluzione russa ed oltre. Ma vediamo i risultati dell’analisi di Todd.

Nel 2007, il tasso di alfabetizzazione nel mondo arabo aumenta velocemente e, a parte eccezioni, la capacità di leggere e scrivere si diffonde nei giovani. Per converso diminuisce drasticamente il tasso di natalità, a parte differenze regionali. La Tunisia è proprio quella dal tasso di fecondità più basso (2 figli per donna). Dunque «in parte del mondo musulmano vi era un tasso molto alto di alfabetizzazione e un tasso di fecondità molto basso. La modernità era dunque già lì». Risultava pertanto «assai bizzarra l’assenza di modernità politica e di aspirazioni verso la democrazia». La «stranezza», per la Tunisia, era spiegabile con la struttura familiare (matrimoni tra cugini o «endogamia») che imprigionerebbe nell’ambito familiare, impedendo l’emergere dell’individuo politico attivo e libero, e tuttavia tra i giovani emergeva una decrescita dell’endogamia. Il fatto che la rivolta sia avvenuta ora è dovuto al calo dell’endogamia.

In Egitto, situazione leggermente diversa, con tasso di alfabetizzazione meno elevato e tasso di fecondità più elevato, mentre il tasso di endogamia era nettamente minore e precipitato negli ultimi anni al 15%. In Egitto, paese più popoloso, si unisce l’effetto di contagio. Nello Yemen, la fecondità è scesa, ma resta a 5,5 figli per donna. In Algeria e Marocco siamo a 2,4 per donna, livello della Tunisia e, come questa, paesi francofoni, dove son diffusi i «valori liberali francesi». La Siria, dove non succede nulla di simile, per ora, sarebbe attardata dal fatto che, pur avendo il tasso di alfabetizzazione più alto del mondo arabo, il tasso di fecondità è 3,3 e il livello di endogamia è piuttosto elevato. Il caso «difficile» da spiegare per Todd è proprio la Libia, dove i dati sono scarsi e di bassa qualità e la popolazione è eterogenea, ma comunque il tasso di fecondità crolla da 7 (1980-85) a 2,7 (2005-2010), e dove Todd introduce un «criterio supplementare» (anche questo poco demografico!) «le rendite petrolifere, che permette all’apparato repressivo statale di sottrarsi al controllo della popolazione», e a questo punto il demografo si sente un po’ smarrito:

«Ci sono talmente tanti avvenimenti importanti che accadono nello stesso momento! Ho l’impressione di esserne sommerso, bisogna far tutte le analisi contemporaneamente, ho l’impressione di vivere un momento storico stupefacente. Il caso della Libia è quello che mi sorprende, perché è l’esempio di paese petrolifero, dove l’apparato statale ha risorse importanti che permettevano l’esistenza di un apparato repressivo completamente indipendente dalla popolazione eppure il regime libico è sull’orlo di crollare. È molto importante dal punto di vista geopolitico, perché suggerisce che la stessa cosa potrebbe accadere in Arabia Saudita, dove i cambiamenti del tasso di fecondità sono paragonabili a quelli libici: sono passati da 7 figli nell’80-85 a 3,2 nel 2010-05. A mio parere in questi giorni i dirigenti sauditi devono essere terrorizzati, e gli americani anche. Come storico, sono sensibile all’importanza del momento storico e mi entusiasmo a ogni successivo avvenimento».

Alla fine deve ammettere di non poter «prevedere quel che accadrà»:

«Non posso. La comparazione si fa con la storia, con quel che è accaduto in altri Paesi. (…) Ciò che rende gli avvenimenti più complicati nel caso del mondo arabo è un fenomeno di accelerazione nel tempo, di compressione delle evoluzioni culturali: tutto avviene molto più tardi, ma molto più velocemente (…) ciò che posso affermare è che (…) la natura della vita sociale resterà trasformata, l’emergenza di un temperamento individualista, più liberale, questa è una conquista definitiva (…) Penso che ci vorrebbe molta audacia, o temerarietà, per pretendere di dire, paese per paese, ciò che accadrà».

Questa imbarazzante sconfessione delle precedenti premesse circa la «prevedibilità» in base ai criteri culturali (alfabetizzazione, educazione) e demografici (fecondità, endogamia) non impedisce a Todd di arrivare al dunque: al fatto che, secondo lui gli avvenimenti del Nord Africa «riaprono la questione dell’universalità della democrazia» in quanto «una buona parte del gioco geopolitico in Medio Oriente è fondata sull’idea che il mondo arabo era incapace di democratizzarsi».

Ora, non vogliamo certo sminuire l’utilità dei parametri utilizzati da Todd per illuminare aspetti dei fenomeni sociali che stanno sconvolgendo il Nord Africa e le relazioni interimperialiste nell’area del Mediterraneo, semplicemente vogliamo sottolineare che quando ci si occupa di fenomeni di insorgenza sociale così estesi e profondi, non si può prescindere da un contesto generale dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, dalla lotta tra le classi che ne caratterizza il momento, e omettere di dare un minimo di descrizione e valutazione dei fatti economici, sindacali, politici che hanno contrassegnato non la «gente» ma proprio i lavoratori nei vari settori. La popolazione coinvolta in questi eventi non è fatta soltanto di individui più o meno alfabetizzati («cognitivi») ma di individui che aspirano ad opportunità lavorative connesse proprio ai livelli di alfabetizzazione raggiunti, o di individui che esercitano un’attività lavorativa, produttiva o improduttiva, o che ne vengono privati all’improvviso, o che si arrangiano alla meno peggio per studiare o che non possono più dedicare una parte del reddito (ormai ridotto al lumicino dalla crisi) a coprire l’impennata dei prezzi delle derrate. 

Quello dell’improvvisa impennata dei prezzi alimentari e lattiero-caseari appare come l’elemento oggettivo immediatamente scatenante dell’insorgenza ancora in atto, se dalla Tunisia alla Giordania, a 2500 km di distanza, la collera dei manifestanti ha avuto di mira ugualmente i governi, invitati, dopo settimane di manifestazioni, a dimettersi [6]. Né si può usare i parametri demografici come costanti a-storiche svincolate dal tasso di occupazione, sia maschile che femminile, dal reddito, dalle condizioni di sanità o malattia, dagli eventi bellici, persino dalle con-dizioni climatiche e ambientali. Infine il fattore educativo, e quella strana cosa che viene definita genericamente «mentalità», nonché costume e atteggiamento morale, ma in cui entra a pieno titolo anche il complesso delle ideologie dominanti, non sono collegati solo all’alfabetizzazione, ma seguono il corso delle abitudini connesse alla sopravvivenza nelle condizioni storiche e geografiche determinate. Non è certo il solo grado di alfabetizzazione che influenza la fecondità, più di quanto la condizioni il fatto che la donna lavori oppure no. Ma di questo Todd non ci dice nulla, come non ci dice nulla sulle componenti sociali che in queste «rivoluzioni» (peraltro ancora incompiute) hanno determinato la caduta di tre regimi e di un quarto sull’orlo del precipizio.

È d’uopo, pertanto, focalizzare la condizione comune dei Paesi epicentro delle rivolte.

Quel che costituisce l’elemento comune, e storico, delle rivolte nei Paesi del Nord Africa (e proprio per questo anche in altre aree del Medio Oriente e dell’intero continente africano) è il loro passato di dipendenza coloniale dalle potenze occidentali, da cui solo formalmente sono tutti usciti in varie forme da mezzo secolo, dalla Conferenza di Bandung dei Paesi Non Allineati fino alla metà degli anni ’60 del secolo scorso, dopo aspre lotte di questi popoli per l’emancipazione sociale e l’indipendenza politica ed economica, di cui si sono giovate forze politiche locali e leaders nazionalisti che, da questa posizione, condussero una battaglia contro l’imperialismo, talvolta anche a carattere progressista e tendenzialmente socialista, per questo ferocemente represse e stroncate, fino all’assassinio, come fu nel caso di Patrice Lumumba (Congo), Amilcar Cabral (Guinea Bissau) o Thomas Sankara (Burkina Faso). Una lotta caratterizzata da colpi di stato, guerre civili, guerriglie, secessioni (come nel caso del Katanga in Angola) e assassini fomentati, e armati, dalle potenze imperialiste, costantemente interessate, ciascuna per la sua parte, al saccheggio delle risorse naturali, minerarie ed energetiche, dal petrolio al gas, all’uranio ai diamanti. 

Egitto, Algeria e Libia (tra i cui leader allora, oltre a Nasser e Ben Bella, figurava anche Gheddafi) furono i cardini del Movimento dei Paesi non allineati e animatori di un pan arabismo socialisteggiante, osteggiato certamente dalle potenze ex coloniali ma, alla prova dei fatti, più retorico e di facciata che sostanziale, e soprattutto politicamente subordinato ed economicamente debole, fino a restare la vernice retorica di una borghesia sempre più collusa, corrotta e succube a copertura del neocolonialismo instaurato dalle potenze imperialiste, che continuano, su nuove basi, il grande gioco di spartizione di sfere di influenza industriali, commerciali e finanziarie, e naturalmente di saccheggio di risorse e del grande bacino di manodopera a basso costo.

L’imperialismo nel grande gioco nord africano (II parte)

Usando il classico parametro della «crescita» economica e restando per un attimo in tema di «previsioni», secondo alcune di queste, nel 2050, «l’Africa emergerà finalmente dalla lunga serie di delusioni, per conquistare la palma del Paese con la più alta crescita, toccando il 7.5% annuo nei prossimi vent’anni» [7]. Nel dettaglio, vari osservatori hanno individuato alcuni Paesi definendoli Tigri africane: tra esse, l’Egitto, dove nel 2009 il Pil era sceso del 2,3 %, ma nei tre anni precedenti era cresciuto a un tasso del 7%, in barba alla crisi, e nel 2009 cresceva del 4,7% rispetto al 2008 (nel 2010 del 6%). Così in Tanzania, dove nel 2009 cresceva del 7,4% (nel 2010 dell’8%), in Etiopia del 9,9% (nel 2010 del 5,3%), in Uganda del 10,4% (nel 2010 del 6,3%) e in Mozambico del 6,3% (nel 2010 del 6,5%) [8]. Naturalmente il rovescio di questa «crescita», come per la Cina, è il reddito procapite, tra i più bassi del mondo, che peggiora in sfacciato contrasto coi grandi affari delle multinazionali alimentari che impongono i prezzi di monopoli alla Borsa di Chicago arricchendo se stessi e le ristrette borghesie locali con l’inflazione. La situazione è aggravata da un sistema fiscale iniquo che incide sui consumi di massa privilegiando le rendite.

Limitandoci all’elemento comune più importante nell’ambito del ruolo di fonte di materie prime assegnato dall’imperialismo coloniale e postcoloniale a questo continente, facevamo notare nel nostro libro [9] che, in fase di tendenza al peak oil, ossia di esaurimento delle riserve, la produzione petrolifera del continente africano nell’ultimo decennio è cresciuta del 36%, contro il 16% del resto del mondo, e oggi l’Africa produce 4 milioni di barili al giorno (l’equivalente di Iran, Venezuela e Messico insieme). Sudan, Nigeria, Angola, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Ciad e altri paesi possiedono circa il 10% delle riserve mondiali di greggio. Esclusa la Nigeria, nessuno di questi Paesi fa parte dell’OPEC e al momento attuale nessuno Stato del continente africano può considerarsi una potenza militare in grado di fronteggiare l’aggressione della più piccola delle potenze occidentali, le quali, per lo più in alleanze (ONU o Nato), ma anche singolarmente (vedi le avances di Sarkozy per l’intervento in Libia), continuano nella prassi di saccheggio, spartizione economica, sottomissione e ricatto politico del continente, dove pertanto è relativamente più aperto il gioco imperialista nell’area, rispetto all’estrema complessità geostrategica del Medio Oriente [10], divenuto una polveriera e un vulcano geo-politico dove l’egemonia Usa è progressivamente intaccata. Del resto, le multinazionali sono già presenti da decenni determinando gran parte dell’evoluzione politica del continente.

La Chevron controlla già il 75% del petrolio dell’Angola, e sconfina in Etiopia scontrandosi con i Cinesi [11]. L’Eni fa la sua parte da leone in Algeria, ma anche in Libia, dove è il primo produttore con 108 mila barili al giorno nel 2009, seguita dai tedeschi e francesi. Ma l’intreccio degli interessi economici e finanziari con quelli politici è un capitolo complicato e difficile da svolgere nei limiti di un articolo, considerando altresì che qui si tratta di «multinazionali». Limitiamoci per ora al gioco geostrategico tra le potenze imperialiste, non prima di osservare che la debolezza politica degli Stati africani è quella che attira maggiormente gli appetiti delle potenze imperialiste, soprattutto se a dare una mano alle sanguisughe occidentali sono proprio le popolazioni locali, esauste ed esasperate per la miseria e l’ultradecennale repressione cui sono sottoposte da parte di queste tirannie, militarizzate, e a volte tribalizzate, per schiacciarle e non certo per fronteggiare le pressioni imperialiste. Il fatto che nelle rivolte maghrebine sia stata abbastanza fredda la presenza della classe operaia sul piano delle rivendicazioni politiche «democratiche», che tuttavia già precedentemente all’esplosione dei tumulti stava conducendo per conto proprio battaglie salariali con scioperi anche forti sia in Egitto che in Algeria e altrove, non ci sembra un fatto del tutto negativo dal momento che, a quanto sembra, non esistono forti e autorevoli organizzazioni politiche in senso coerentemente anticapitalistico, e può essere anche un segno della comprensibile diffidenza operaia verso chi, per esperienza, potrebbe fare peggio di chi se ne va. 

Qualche osservatore ha fatto notare che quando si parla di Maghreb, in realtà si allude ad una non-realtà, un «non-Maghreb» [12], una sorta di balcanizzazione che costituisce uno dei maggiori ostacoli alla cooperazione economica e sociale regionale che, se realizzata, metterebbe quest’area nella condizione di reale autodeterminazione politica e di sviluppo e crescita economica, in senso ovviamente capitalistico. Solo una rivoluzione sociale realmente proletaria e in senso inequivocabilmente anticapitalista, potrebbe emancipare le popolazioni della sponda sud del Mediterraneo dal ruolo di produttori schiavizzati di ricchezza per conto dell’imperialismo e di spettatori inerti al saccheggio della natura che li ospita da millenni. E non è da dire che il proletariato, occupato e non, sull’altra sponda del Mediterraneo, sia in condizioni migliori. 

La disoccupazione tecnologica che colpisce sempre più ampi strati di giovani della piccola e media borghesia anche scolarizzata, aggravata dai tagli al welfare e dalla crisi del debito pubblico, col conseguente taglio di ampi settori impiegatizi, non fa che globalizzare l’esercito industriale di riserva, in cui il fenomeno migratorio a tutto campo determina una «banlieue» mondiale gigantesca, in alternativa alla quale l’unico «futuro» sembra l’impiego securitario pubblico e privato, configurando una sorta di suddivisione della società tra briganti e poliziotti. E anche per i «fortunati» occupati su cui fanno leva i Marchionne globali per imporre col ricatto occupazionale piani produttivi che riportano le condizioni di lavoro agli inizi della rivoluzione industriale, non c’è molta differenza rispetto agli operai maghrebini e in genere africani che viaggiano con salari da 2 $ al giorno. In tal senso, i «giovani senza futuro» come il tunisino Mohamed Bouazizi, divenuto emblema come torcia umana, sono gli stessi di quelli delle grandi città del mondo, anche d’Italia dove resistono ancora raspando il fondo del barile della famiglia plurireddito ormai in declino. Esistono dunque condizioni sociali comuni nel giovane proletariato nelle grandi concentrazioni urbane di entrambe le rive del Mediterraneo, base propizia per una presa di coscienza internazionale e internazionalista. Infatti si stanno mobilitando anch’essi: sabato 12 marzo 2011, in Portogallo, via Internet, a Porto e a Lisbona scendono in piazza contro la precarietà 57000 giovani [13].

Questa del Nord Africa è una zona in cui il commercio interstatale locale incide appena per l’1,3% dei loro scambi esterni, cioè una zona che presenta il tasso di interscambio regionale più basso del mondo [14]. Basti pensare agli enormi vantaggi, per i popoli che vi risiedono, derivanti da una condizione di frontiere aperte, condizione che, paradossalmente, si presenta ora con i rifugiati vittime delle repressioni di questi mesi. In fondo hanno una lingua comune, una civiltà comune e un’antica storia comune, hanno risorse naturali strategiche notevoli (da sola, l’Algeria, è al terzo posto come fornitrice di gas per l’Europa, dopo la Russia e la Norvegia, mentre il Marocco possiede la metà delle riserve mondiali di fosfati). Hanno un’agricoltura varia e di qualità che ha il solo difetto di essere assediata dalla subordinazione dei bisogni locali a quelli del mercato globale, che li mette in preda al deficit cronico e crescente di cereali e alla fame (e sete!) capitalistica, nonché allo stravolgimento delle abitudini alimentari. Potrebbero essere, se uniti, i primi produttori di fertilizzanti, competitivi rispetto ai tre mercati mondiali dei concimi (India, Brasile e Cina) dal momento che i fosfati del Marocco richiedono zolfo e ammoniaca, di cui è ricca l’Algeria, in un settore che conta un’alta quantità di posti di lavoro in cinque continenti. 

Ed hanno altresì una natura, un paesaggio e un patrimonio in cosiddetti «beni culturali» che è già da tempo nel mirino dell’industria turistica occidentale. Hanno tutti, per usare i parametri di E. Todd, una «transizione demografica» (passaggio da alti tassi di natalità e di mortalità a tassi decisamente più bassi) già da tempo acquisita, e una popolazione giovanile abbondante e spesso culturalmente qualificata (diplomata e laureata), che però si presenta sul mercato della forza-lavoro (già monopolizzato negli sbocchi migliori dai rampolli della borghesia compradora) già disoccupata per il 50% e in fuga dai loro paesi per raggiungere l’Europa attraverso quel mare comune che ne inghiotte migliaia all’anno nella traversata. 

Un’emigrazione che garantisce annualmente delle rimesse nei Paesi d’origine talvolta (come nel caso del Marocco) del doppio rispetto all’ammontare degli investimenti diretti stranieri. Sta di fatto che l’emigrazione non riguarda solo la forza-lavoro ma anche i capitali, e si calcola che ogni anno 8 miliardi di dollari vanno ad aggiungersi allo stock di 200 miliardi di $ di capitali investiti oltre i confini del Maghreb [15] da una borghesia che non ha nulla da invidiare alla collega occidentale, in fatto di modernità in senso finanziario e rentier.

Ora, l’interesse statunitense per il continente africano cominciò prima dell’11 settembre 2001 e, in particolare, la sua influenza nel Maghreb cresce dalla metà degli anni ’90, rosicchiando la sfera d’influenza francese (ex potenza coloniale estesa su quattro dei cinque Paesi che compongono l’area, nonché nell’ex colonia del Niger, detentore del 7% delle riserve mondiali di uranio che l’han resa leader europea e mondiale del nucleare [16]) e scontrandosi dall’ini-zio del 2000 con la nuova arrivata Cina, costretta dal suo sviluppo a cercare nuovi mercati e vie di accesso e controllo degli approvvigionamenti di risorse fossili e minerali di cui è ricco il sottosuolo in molte aree del continente nero. Di contro alla potenze ex coloniali occidentali, che agiscono con le reti clientelari connesse con il precedente rapporto di dominio e con la diplomazia sotterranea accompagnata da soluzioni militari e para-militari (che alla fine aprono spazi alla presenza statunitense) i cinesi agiscono invece con una raffinata e flessibile strategia da soft-power che combina cooperazione e obbiettivi comuni nell’ambito dello sviluppo Sud-Sud [17]. Perno di questo gioco è l’Algeria, ma lo vedremo nella scheda a parte.

Prima dell’11 settembre 2001, in una riunione di consulenti e rappresentanti dei monopoli petroliferi con l’allora vicepresidente Dick Cheney, veniva emesso un comunicato in cui si raccomandava al Presidente di assegnare alle segreterie di Stato, dell’Energia e del Commercio il compito di «approfondire gli accordi bilaterali e multilaterali con i Paesi africani al fine di promuovere la creazione di un ambiente ricettivo per gli investimenti e le operazioni commerciali statunitensi di petrolio e gas naturale» [18]. In seguito, il repubblicano Ed Royce, presidente del Sottocomitato per l’Africa della Camera dei Rappresentanti, dichiarò «interesse nazionale diversificare le nostre fonti di rifornimento di petrolio. L’espansione della produzione energetica africana serve a questo scopo» [19]. 

Un ruolo determinante nella maturazione, già dal 2001, del progetto dell’Africom, come sottocomando USA volto a garantire la sicurezza regionale negli investimenti petroliferi, è attribuito allo IASPS (Istituto di Studi Politici e Strategici avanzati), think tank israeliano con sede a Gerusalemme e filiale a Washington. Secondo Amadou Fall, «dopo aver incassato il rifiuto di quasi tutti gli stati africani, Africom sembrava essere destinato a rimanere a Stoccarda, in Germania…, di fatto, … in parallelo alla diminuzione della presenza della Francia nella sua vecchia area d'influenza, … è stato ripensato come strumento che consiste in una trama di piccole installazioni intorno alla base americana di Gibuti» [20], base di controllo della rotta su cui transita ¼ della produzione petrolifera mondiale e di dominio della fascia petrolifera che, attraverso il Ciad e il Camerun, percorre l’Africa fino al Golfo di Guinea.  Le mire USA vanno all’Uganda da cui controllare il Sudan meridionale e allargare il controllo alla Nigeria, Gabon, Guinea e Repubblica Democratica del Congo, ugualmente ricche di petrolio e gas naturale, con la quale sono nate già questioni sulle concessioni da parte dello stato congolese alle multinazionali americane. Dopo essersi accaparrati i minerali del Katanga con un consorzio che ne sfrutta più della metà delle risorse, nonché il controllo del Kivu, gli USA puntano al petrolio di Ituri e dei Grandi Laghi [21]. Secondo Mahdi Darius Nazemroaya [22], il Sudan, ricco di petrolio, si sta anche preparando ad affrontare conflitti interni e la possibilità di un futuro conflitto condotto dagli Stati Uniti, col pretesto dell’«intervento umanitario».

Nel febbraio 2006, l’amministrazione Bush annuncia il progetto di un Comando militare per l’Africa (Africom) con attività centrata inizialmente nella regione instabile del Sahel sul fianco meridionale dell’Algeria, con due iniziative: la Pan-Sahel Initiative, comprendente la maggior parte delle banche dei Paesi del Sahel, e ulteriori tecniche per combattere il terrorismo nel Sahara. La filiale algerina di Brown and Root Condor, multinazionale dalle ramificazioni impressionanti vicina all'ex vicepresidente Dick Cheney, intraprendeva la riparazione e la costruzione dell'aeroporto di Tamanrasset [23]. Tale società fu sciolta a seguito di uno scandalo di corruzione, e la base aerea, rivendicata da AFRICOM, sarà utilizzata da parte dello Stato maggiore congiunto dei paesi del Sahel per la lotta contro i gruppi terroristici e la criminalità organizzata transfrontaliera del Sahel. Dal febbraio 2006, l’attivismo militare di Africom aumenta drammaticamente, con l'obiettivo dichiarato di integrare l'Africa nella guerra globale contro il terrorismo. Allo scopo di garantire e proteggere l’accesso ai materiali strategici, si aggiunge quello del contenimento della penetrazione cinese in Africa, nonostante le importazioni di idrocarburi da parte della Cina dalla zona sub-sahariana non superino il 12% del totale delle importazioni mondiali, di contro a quelle USA del 32% [24]. In questo contesto, il ruolo dell’Europa in senso unitario non c’è, né politicamente né militarmente (anche se le sue potenze nazionali, e più spesso i suoi gruppi economici e finanziari, continuano in ordine sparso a coltivare i propri interessi, traffici d’armi e appetiti) se non come appoggio da parte di questo o quel Paese che gli Stati Uniti riescano a procurarsi, l’uno a detrimento dell’altro, in appoggio all’insieme dei propri interessi strategici, che la superpotenza non è più in grado di difendere da sola.

Così è che, solo per spese ordinarie, l’Africom è finanziato da 50 mln di $ del 2007 a 310 nel 2010, quando in addestramento e armi per gli eserciti locali sono spesi non meno di 20.000 milioni. E qui i giochi sporchi dell’ingerenza cosiddetta «umanitaria» si sprecano, nello stile collaudato in tutto il mondo, a partire dal Centro e Sud America È noto come la «collaborazione» USA – Etiopia abbia determinato una delle peggiori crisi umanitarie in Somalia, aggravando la situazione. Da un lato gli Stati Uniti «condannano» ad es. il Sudan per il genocidio in Darfur, e dall’altro accompagnano il maggior generale Abdallah Gost, capo dello spionaggio sudanese, ricercato dalla Corte Penale internazionale per delitti contro l’umanità, alla CIA per consulenze sugli interessi militari USA nel Corno d’Africa [25]. Sempre nel 2006, quando l’Etiopia invade la Somalia, Africom fornisce appoggio logistico, denaro, supervisione e addestramento alle truppe etiopi per un’operazione destinata a garantire il futuro sfruttamento delle grosse riserve petrolifere somale. Quando, nel 2008, forze ugandesi, della Repubblica Democratica del Congo e del Sudan attaccano i ribelli (Esercito della Resistenza del Signore) in un parco nazionale congolese, 17 consulenti di Africom partecipano alla pianificazione operativa, riforniscono le truppe regolari ugandesi di cellulari e benzina per un mln di $ [26]. Il Congo nasconde l’80% della riserva mondiale di cobalto [27] nonché del manganese, vitali per l’industria elettronica USA! Ma oltre al cobalto c’è anche l’uranio, in Africa, e questo chiama in causa l’industria nucleare occidentale, e il ruolo quasi di monopolio della Francia sull’uranio del Niger [28], paese questo tra i più poveri ma che ne detiene il 7% circa delle riserve mondiali; il 13,5% delle importazioni europee di uranio è nigerino. Così, per es., la Tunisia e altri paesi magrebini sono sotto tiro per la produzione di fosfati, vitale per i fertilizzanti, come si è visto, e che tra l’altro, nelle condizioni in cui si svolge capitalisticamente l’estrazione, è una delle cause di malattie della forza lavoro tunisina e di distruzione dell’ambiente.

In definitiva l’Africa nel suo insieme, ventre molle politico e istituzionale sulla rotta strategica dei giacimenti di idrocarburi e minerali strategici, resta ancora nei confini assegnati del post-colonialismo, come fonte di materie prime utili quasi esclusivamente all’occidente, come bacino di lavoro produttivo in condizioni di schiavitù neanche tanto larvata, tende sempre più a diventare un canale strategico di scarico e compensazione dell’immensa tensione inter imperialista concentrata in Medio Oriente, complicando il gioco tra vecchie potenze ex coloniali in ordine sparso e nuovi partner come Cina, Stati Uniti e Russia. Questa realtà, che negli Stati africani si configura come un potere per procura da parte dell’imperialismo occidentale, ha richiesto finora regimi stabili e protetti dalle potenze imperialiste, compiacenti o indulgenti, nonché indifferenti di fronte alla crescente catena di corruzioni organizzate intorno al potere e alla forte dose di violenza poliziesca e securitaria su chi è deputato a produrre plusvalore. Non è un caso che l’ex capo dei servizi segreti ed ex ministro degli interni Ben Alì (il cui patrimonio è valutato oggi tra i 30 e 50 MD di $, e che insieme con la famiglia della moglie gestiva il 40% del PIL tunisino) sia stato letteralmente prima individuato e poi messo al potere con un golpe notturno (6-7 novembre 1987) preparato già dal 1985 da Craxi e realizzato con la complicità segreta (neanche troppo, se venne a galla 12 anni dopo ad opera di chi la eseguì) del governo italiano allora in concorrenza con la Francia (Goria-Andreotti, il capo del SISMI ammiraglio Fulvio Martini, e l’allora presidente dell’ENI Franco Reviglio), facendo dichiarare inadatto il presidente Burghiba da una commissione di medici ad hoc [29]. E lo stesso vale per i rais: Mubarak (il cui patrimonio ammonterebbe a 70 MD $) e Gheddafi, entrambi bastioni coccolati e foraggiati di armi contro altri Paesi arabi e soprattutto come mastini verso i rispettivi proletariati. 

L’aspetto più inquietante è che questi tiranni compradori, dalla Tunisia all’Egitto all’Algeria alla Libia, in un modo o nell’altro sono stati aiutati sia nella conquista che nel mantenimento del potere per decenni, ed ora miseramente abbandonati e sconfessati, quando la rabbia delle popolazioni lavoratrici ha finalmente cominciato ad alzare la testa, decidendo di non voler pagare oltre la crisi capitalistica e mettendo alla prova la stabilità dei loro regimi nella funzione di controllo dell’insorgenza sociale per conto del capitale globale. Il gioco è semplice, ed è sempre il solito, come solite sono le squallide e ipocrite argomentazioni addotte dai politici imperialisti occidentali: quella di essere dalla parte delle popolazioni violentate fa accapponare la pelle, se si pensa che dappertutto i proiettili sparati dai poliziotti sui dimostranti avevano per lo più il marchio made in USA accanto alle armi di Beretta e altri europei.

L’imperialismo nel grande gioco nord africano (III parte)

La lunga crisi del capitale sociale complessivo mondiale, che, dal 2007, sta incancrenendo il modo di produzione capitalistico, ha raggiunto l’evidenza di una crisi sistemica mondiale. Il suo riflesso politico, strettamente connesso con le condizioni di insorgenza sociale [30] in più parti del mondo, si evidenzia come una spinta alla disarticolazione anche negli equilibri all’interno degli organismi politici nazionali e sovranazionali (come l’Unione Europea o gli Stati Uniti o le stesse Unione Africana, che vota per la no-fly zone, e Lega Araba che vi si oppone) e militari internazionali, come per es. la Nato, nonché nelle alleanze e rapporti nella scala e nell’equilibrio tra le potenze imperialiste.

Considerando il sistema capitalistico a livello politico e geostrategico, lo snodo del Mediterraneo si colloca subito a ridosso di quello, cruciale, del Medio Oriente, anch’esso già in ebollizione: dallo Yemen al Bahrein alla Giordania e Libano, e ora anche alla Siria, che potrebbe costituire, secondo la massima parte degli osservatori e analisti internazionali, la molla per una guerra a dimensione mondiale. 

Secondo alcuni studiosi di strategia internazionale, la Libia di Gheddafi e il Venezuela di Chavez avrebbero proposto, più volte, la creazione di una Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Sud, tra Africani e Paesi del Sud America per contrastare la NATO [31] sul versante occidentale dall’Atlantico al Mediterraneo maghrebino.

È noto altresì che, all’interno dell’Alleanza Atlantica, Gran Bretagna e USA, non senza reciproci attriti, corrano ancora in tandem, come eredi della politica britannica, già volta, fin dai tempi di Palmerston, a impedire la formazione di una grande potenza sul continente euroasiatico, da sempre individuata nella Russia al Nord, il cui accesso agli Stretti, e da lì al Mediterraneo, costituiva la Questione d’Oriente, e nella Francia al Sud, come ostacolo all’egemonia inglese e ora ai capisaldi delle basi americane del Mediterraneo. La questione emerse, ancora una volta, con il tentativo, poi fallito, dell’ex URSS di aprirsi un varco a sud con l’invasione dell’Afghanistan. Fallimento aggravato poi dall’implosione dell’URSS, che ha portato gli USA a insediarsi, a loro volta, in Afghanistan e in altri paesi ex URSS. La funesta prospettiva potrebbe globalizzarsi con l’aggregazione di Russia, India, Cina e Iran (che col Brasile formano i BRIC, circa il 40% dell’umanità), e la Turchia come cerniera mediatrice, come potenze regionali proiettate in differenti bacini geopolitici, proprio sul versante orientale del Mediterraneo, dal Mashreq fino alla polveriera critica del Medio Oriente.

Questa ipotesi ha prodotto finora parecchie guerre (dalla Georgia-Ossezia all’Asia centro-sud-orientale, ecc., di cui qui non è necessario occuparci) e, nell’ipotesi in cui la Cina diventi una superpotenza globale, potrebbe ridimensionare ulteriormente la potenza americana già in declino, portandola a livello di Francia, Germania, Gran Bretagna e Giappone. L’Iran, in questo intreccio, come potenza regionale, estende le sue propaggini nel MENA (Medio Oriente e Nord Africa); da qui la sua ricerca di alleanze sull’altra sponda dell’Atlantico e con la Turchia, per formare una sorta di «Quadrilatero globale» appunto con Venezuela e America Latina, proposta raccolta da Chávez [32], che aggiri e controbilanci la tendenza all’accerchiamento a tenaglia da parte della Nato. Determinante in questa tendenza al ridimensionamento della potenza USA sarà la scadenza del prossimo «buco» debitorio, ben più grande di quello denunciato dall’amministrazione americana per il precedente salvataggio delle imprese in crisi [33].

Nel contesto geopolitico del Mediterraneo, l’Unione Europea riflette, con tutta evidenza, la disomogeneità delle singole potenze che la compongono e i rispettivi rapporti economici, specie bilaterali, anche con i paesi della sponda Sud. È questa la ragione per cui l’Unione del Mediterraneo, lanciata da Francia, Spagna e Italia alla metà degli anni ’90, è rimasta lettera morta. Interessante è che la Libia di Gheddafi non vi aderisce, ma si limita ad essere «osservatrice esterna».

Peraltro, i governi dell’Unione Europea sono assillati dalla crisi fiscale che si abbatte sui lavoratori a causa dei tagli sempre più consistenti dei servizi sociali, al punto che a Londra ritornano le grandi manifestazioni come quella di sabato 26 marzo, la più grande dai tempi della guerra del Golfo, con 250.000 partecipanti e scontri con la polizia con feriti e arrestati. Nel loro insieme, agiscono contro ogni tendenza all’unificazione del Maghreb, usando la classica strategia del colonialismo britannico del «divide et impera».

All’interno dell’Unione, tra l’altro, l’interesse francese nei Paesi del Maghreb è più marcato, dal punto di vista politico ed economico, né bisogna dimenticare che, dopo aver incoraggiato accordi privilegiati per la pesca e il trasferimento di fondi per milioni di euro dall’Europa al Marocco che stroncava le aspirazioni delle popolazioni del Sahara occidentale colonizzate dal Marocco, quest’ultimo ha spesso giocato il ruolo di gendarme degli interessi francesi in Africa [34]. Ora, viceversa, la Francia, nella sua espressione di destra e di Sarkozy, ambirebbe a consolidare l’incrinata sua leadership nell’area.

Analogo atteggiamento, anche se molto più cauto dei francesi, è quello spagnolo.

Dal canto suo, la destra inglese di David Cameron briga con l’intelligence collaborando con i ribelli di Bengasi (i «barbuti», e alcuni parlano anche di «shabab» libici) e vanta una tradizione di rapporti con la versione wahabita/salafita dell’Islam, oggi espressa da Ikhwan al Muslimeen (Fratelli musulmani) [35].

In occasione dell’intervento militare dei «volenterosi» in Libia, è emersa una tendenza della Germania raccolta intorno alla Merckel a correre in solitario, per diverse ragioni che fanno prevalere, non senza contrasti all’interno del governo tedesco, una scelta di rafforzamento nei Paesi dell’Europa orientale e verso il gigantesco mercato asiatico. Ugualmente pesa la crisi sulla Germania, dove le agitazioni, con centinaia di migliaia di persone nelle grandi città, si vanno articolando intorno alla questione nucleare che, insieme al problema dei salvataggi degli stati in crisi debitoria, stanno facendo vacillare la moneta unica, ventilando un ritorno al marco.

Quanto all’imperialismo italiano, non varia molto il suo ruolo interstiziale negli spazi lasciati labili dai contrasti tra le maggiori potenze, come è dalla nascita dello Stato unitario fino all’epoca coloniale quando, esattamente 100 anni fa, nel 1911, la Libia venne definita la «quarta sponda» del Mediterraneo, poi proseguita col fascismo [36]. Chi non ricorda l’inno cantato dai nostri nonni Tripoli bel suol d’amore? Inserimento di un vaso di coccio tra vasi di ferro, che ha fatto parlare di imperialismo «straccione», ma piuttosto levantino, divenuto sempre più consistente sul profilo economico, al punto che a giusto titolo il Nord Africa, e in special modo la Libia, e in certa misura l’Algeria, appaiono a vari osservatori e politici italiani come parte integrante del nostro sistema economico, ma sempre nel condizionamento e in subordine rispetto al grande gioco delle potenze nord atlantiche. Circostanza che non muta nella sostanza, dalla politica, pur con qualche forzatura machiavellica, di Enrico Mattei, fino alla politica «mediterranea» dell’era craxiana e dell’attuale governo Berlusconi, con un esito, in seguito alla crisi, certamente non previsto dalla miopia della politica da mercanti dei vari governi recenti, di progressivo nanismo politico, in controtendenza agli affari economici realizzati, che genera lo stato d’animo piagnone da vittoria mutilata, di fronte all’insidia franco-inglese e di altri concorrenti ancora più temibili.

Ribadisco qui quanto analizzato in dettaglio nel mio libro [37], che la situazione nel Nord Africa vede, da una parte, la maturazione, con diversi pesi nella regione, di un’insorgenza sociale nei ceti popolari più direttamente investiti dalla regressione sociale (conseguente alla decadenza generale del capitalismo su scala mondiale, in un settore del capitalismo cresciuto rapidamente e caoticamente) e, dall’altra, sistemi economici e politici in cui la borghesia, in tutte le sue stratificazioni, ma in particolare in quello rentier e finanziario, è cresciuta nell’affarismo speculativo, nella corruzione penetrata dal vertice della burocrazia statale politica, amministrativa e militare, in profondità fino ai clan e alle tribù locali.

Quel che si sta evidenziando da circa un decennio, dal Medio Oriente al Nord Africa, è una spinta ad una relativa unità dei popoli oltre le divisioni stabilite dalle potenze coloniali. Questa tendenza, che costituisce una minaccia per Israele, è stata rimossa nel 2003 con la suddivisione dell’Iraq tra curdi, arabi musulmani sciiti e arabi musulmani sunniti, e persino alimentando l’odio da parte di forze sconosciute contro i cristiani. Gli USA hanno gestito la balcanizzazione, o meglio la libanizzazione in termini federali. Analoghe operazioni in Libano e tentativi in Siria, in Palestina, nonché in Turchia a supporto autonomista degli Alawiti. La campagna contro i cristiani copti in Egitto va nella stessa direzione di creare divisioni, tra musulmani e cristiani. Così in Sudan si è addivenuti alla secessione del Sud Sudan, sostenuta e armata anche da Israele. Da ultimo, si è aggiunto il tentativo di arginare gli sconvolgimenti sociali nel mondo arabo da parte degli imperialismi inglese, francese e statunitense e spingere sulle differenze tribali per dividere, con tutta probabilità, la Libia tra una parte occidentale ed una orientale. Contemporaneamente la monarchia saudita lavora per dividere sunniti e sciiti e arabi e iraniani, come se fosse operante una sorta di piano Yinon più o meno consapevole [38].

Ora, nel brutale e degenerato riproporsi in scala allargata (e con spropositata esibizione di mezzi bellici, in funzione sia sperimentale che di vetrina, come per la Guerra del Golfo) dell’ennesima aggressione imperialista, è tremendamente vero quanto affermava Amadeo Bordiga, secondo il quale sarebbe follia intendere la «sovranità» in senso metafisico, in modo tale che la sovranità di un Paese minuscolo possa pesare sulla bilancia alla pari di quella dei Paesi giganti [39]. Bordiga lo affermava in merito al caso dell’Egitto nasseriano, che nel 1956 sognava di tenersi per sé la rendita del canale di Suez, analogamente a quanto sta accadendo in Africa sui flussi energetici e dei minerali strategici, tra grandi e medie potenze, già coinvolte dagli sconvolgimenti geostrategici, e le minuscole potenze. Il risultato dell’operazione nasseriana portò al ridimensionamento del imperialismo inglese e francese, nonché al ritiro degli Israeliani dal Sinai, ma anche al subentro di quello americano.

In realtà non sono folli coloro che come il presidente italiano Napolitano sostengono, ma a testa bassa per celare il senso di vergogna, che quella italiana non sia un’azione di guerra ma … un’azione legittima sancita dall’ONU. Semplicemente mentono sapendo di mentire. Accampare motivi di legittimità in un caso flagrante di ingerenza negli affari interni libici viola proprio la Carta delle Nazioni Unite, e i primi a violarla sono i predoni del Consiglio di Sicurezza, quando usano una risoluzione (la n. 1973) che consente «tutte le misure necessarie» contro il regime libico, mentre il cap. 7 della Carta, che peraltro esclude l’ingerenza negli affari interni dei Paesi membri, limita le azioni militari alle minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, e la Libia non è in grado di minacciare alcunché mentre le azioni brigantesche dei «volenterosi» lo stanno già facendo, e con conseguenze disastrose proprio sui civili inermi. 

A che servirebbe del resto questo peloso dosaggio della gestione della no-fly zone con avanzamenti e indietreggiamenti, se non a prolungare il massacro di lealisti e ribelli e la vetrina delle armi super moderne all’uranio impoverito? Né si può considerare aggressore uno Stato… sul proprio territorio! Questi predoni che assumono la veste di magnanimi poliziotti internazionali, e non certo di bolscevichi internazionalisti a sostegno di proletari in lotta per la rivoluzione nel proprio paese e nel mondo intero, han trovato il pretesto della protezione di civili inermi, mentre vanno a supportare, ciascuno per la sua parte, dei ribelli che loro stessi riforniscono di armi, e che di fatto costituiscono una forza armata, come del resto rifornirono di tutto punto Gheddafi non meno tiranno prima di quanto lo sia adesso. 

Lo fecero già con Saddam Hussein, aiutandolo a gasare i Curdi, per poi abbatterlo con la scusa di armi di distruzione di massa che non ci sono mai state. E il gioco è diventato ormai una prassi, e rientra in quella che nella prima parte abbiamo definita la guerra mediatica condotta al suono di manipolazioni mediatiche e menzogne di guerra. Svariati osservatori internazionali han fatto notare la presenza a Bengasi di consiglieri militari occidentali e squadre speciali già prima dell’intervento aereo alleato, e gli americani stanno ora armando i ribelli attraverso l’Egitto, in barba all’embargo sulla Libia. L’elenco dei fatti che dimostrano come questo in Nord Africa e in Libia sia un intervento schiettamente neocoloniale e imperialista, di controversia tra potenze economiche e militari su terreno altrui, allungherebbe di molto questo studio e costituirebbe una ridondanza di dettagli in più rispetto all’analisi fatta delle sue cause profonde [40]. Analoga constatazione ci viene dalle incongruenti e pretestuose motivazioni accampate per l’ennesimo intervento militare spartitorio, ma millantato come umanitario e per la democrazia (come per quelli in Iraq e in Afghanistan, appunto, e bisognerebbe aggiungere per le rivoluzioni «colorate» nell’Europa dell’Est, per la disgregazione della ex Jugoslavia, ecc.) e di riassetto degli equilibri strategici delle potenze nell’area. Quando questi predoni parlano di democrazia intendono sempre la «loro» democrazia: cosa hanno fatto Stati Uniti e Unione Europea quando, nei territori occupati, i palestinesi di Hamas nel 2006 hanno vinto le elezioni democratiche? Se ne sono fottuti, e non le hanno riconosciute.

I cambiamenti di regime, sotto la pressione dell’inevitabile movimento tellurico delle popolazioni, in questa fase critica di ridefinizione di tutti gli equilibri nella bilancia delle potenze e del sistema di pesi e contrappesi nelle relazioni internazionali, sono lo specchio della ridefinizione di accordi che si profilano di difficile realizzazione, fino a quando i predoni non si saranno accordati tra di loro sulle rispettive zone di competenza, ossia sulle rispettive parti del bottino, che non è solo energetico ma anche finanziario [41]. Parlare poi di «sovranità nazionale» nel caso della Libia, è follia in senso duplice: innanzitutto perché la Libia resta ancora una creazione statale post-coloniale, dove il concetto di nazione si scontra con una struttura tribale sui generis e con due entità come la Tripolitania e la Cirenaica cui il concetto di stato-nazione è artificioso e di difficile applicazione.  

Ed è follia anche per la flagrante contraddizione che ne vede la palese violazione con l’ingerenza sotto l’ombrello dell’ONU. Per quanto concerne la Libia, di fatto essa costituisce un aggregato di almeno tre componenti disomogenee di popolazione (Tripolitania, Fezzan, Cirenaica) articolata in 140 tribù, con rispettive proiezioni economiche e politiche verso il Maghreb da un lato e verso il Mashreq dall’altro, in definitiva verso l’Algeria e Tunisia e verso l’Egitto. Essa costituisce di fatto l’unico Stato arabo attualmente coinvolto in una guerra civile, come in parte lo è lo Yemen, dove però le stesse potenze imperialiste (più Arabia Saudita e Giordania), che in Libia intervengono a sostegno delle forze ribelli (è noto che gli USA sostengono il Fronte Nazionale per la Salvezza della Libia), sono qui a fianco delle forze governative del presidente Ali Abdullah Saleh, rivelatosi non meno tiranno sanguinario di Gheddafi, né dei Mubarak e Ben Alì che li hanno preceduti nella caduta. Quanto al sistema tribale, c’è tra gli osservatori chi lo sottovaluta e chi lo tiene in gran considerazione come elemento specifico operante nell’ulteriore complicazione dell’attuale condizione di insorgenza rispetto all’intero Maghreb, ma ce ne occuperemo nella scheda dedicata alla Libia, a partire dalla prossima newsletter.

Una conclusione si ricava facilmente (e tristemente!) dall’analisi del gioco inter imperialista in Africa, Medio Oriente e altrove ed è che il proletariato è quello più direttamente coinvolto e colpito dalla guerra in corso, che appartenga all’uno o all’altro schieramento. Quello che appartiene alle potenze occidentali sta già pagando il costo finanziario della guerra e si avvia a pagare anche quello dell’imminente collasso finanziario del grande «buco» del debito pubblico americano, ma anche inglese e degli altri alleati; quello maghrebino lo sta pagando con la sequela di massacri perpetrati dai criminali interessati a vario titolo a questa guerra. La tristezza deriva dalla constatazione elementare di questa condizione, una condizione di assenza di una potenza proletaria internazionale che possa contrapporsi alle altre potenze politiche statali delle borghesie del mondo, che organizzi la schiacciante forza proletaria che oggi insorge ormai dappertutto, per indirizzarla contro i governi guerrafondai delle megalopoli capitaliste, che imponga la cessazione della guerra non con gli appelli buonisti né con l’ipocrisia della guerra etica umanitaria o dell’«azione militare cinetica» secondo la neo lingua di Obama, ma con la forza e l’autorità della propria organizzazione indipendente e autonoma, per uscire da un sistema sociale divenuto un serio pericolo per la sopravvivenza stessa del genere umano e della natura.

Dante Lepore
Gassino Torinese (To), 23 marzo 2011
PonSinMor
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Note
  1. È quanto sostengo nel mio libro: Decadenza del capitalismo e regressione sociale, cit.
  2. Forze dell’Uganda, della Repubblica Democratica del Congo e del Sudan nel 2008 hanno attaccato una base dei ribelli dell’Esercito della Resistenza del Signore in un parco nazionale congolese:17 consulenti di Africom hanno partecipato alla pianificazione dell’operazione e rifornito le truppe ugandesi di cellulari e di benzina per un milione di dollari (NYTimes.com, 07/02/09). il Congo accumula l’80% delle riserve mondiali di cobalto, elemento chiave per l’industria elettronica.
  3. L’intervista, al «Sole 24 ore» del 27.02.2011, è riportata anche, integralmente e in versione originale, Url: http://lararicci.blog.ilsole24ore.com/2011/02/si-potevano-prevedere-le-rivoluzioni-nel-mondo-musulmano.htm 
  4. Nel 2002, E. Todd esponeva lo stesso concetto nel saggio, divenuto famoso,  Après l’empire, Gallimard, Paris 2002, tr. it. Dopo l’impero, Il Saggiatore, Milano 2003, senza tuttavia, paradossalmente, spiegare le cause del declino della superpotenza americana con gli stessi criteri (demografici e culturali) adottati per spiegare i mutamenti nel resto del mondo.
  5. E. Todd, Dopo l’impero, cit., p. 32.
  6. Url: http://www.guardian.co.uk/world/2011/jan/15/jordanians-protest-over-food-prices
  7. Ambrose Evans-Pritchard, Sarà la Cindia a governare il mondo nel 2050, o ancora l’America?, Url: http://www.telegraph.co.uk/finance/comment/ambroseevans_pritchard/8350548/Will-Chindia-rule-the-world-in-2050-or-America-after-all.html, tradotto in www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8035
  8. F. Rampini, Il mondo salvato dalle Tigri Africane, «La Repubblica», Affari & Finanza, 31.01.2011.
  9. Decadenza del Capitalismo e regressione sociale, cit., pp. 58-60 e passim.
  10. Ibidem, cit., p.
  11. Cfr. i riferimenti in Juan Gelman, Africa Africa, Url: www.pagina12.com.ar/diario/contratapa/13-146185-2010-05-23.html; Cfr. anche Wissem Chekkat, Jeu d’influences en Afrique du Nord, cit.
  12. Francis Ghiles, Le «non-Maghreb» coûte cher au Maghreb; i dati sul Maghreb da qui in avanti sono desunti da questo articolo, in www.monde-diplomatique.fr/2010/01/GHILES/18755.
  13. http://it.euronews.net/2011/03/13/portogallo-manifestazione-contro-la-precarieta
  14. Ibidem
  15. Ibidem.
  16. Cfr. Dante Lepore, Decadenza … cit, p. 78, nota 4.
  17. Cfr. Wissem Chekkat, Jeu d’influences en Afrique du Nord, Algérie Focus - Mai 2212, in www.kidal.info/KI/forums?theme=debats&msg=376&p=12
  18. whitehouse.gov, 21.05.01
  19. Cfr . Juan Gelman, Africa Africa, cit.
  20. Africom en el corazon de la guerra del petroleo,  «Le Soleil», 4.11.2010, art. ripreso in numerosi blog, in  http://www.fundacionsur.com/spip.php?article7422
  21. Ibidem
  22. Global Research, 5 Dicembre 2010, Url: http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=22170
  23. Cfr. Wissem Chekkat, Jeu d’influences en Afrique du Nord, cit.
  24. Ibidem.
  25. Cfr. «Los Angeles Times» (http://www.latimes.com/ del 29.04.05)
  26. N.Y. Times (http://www.nytimes.com/ del 07.02.09)
  27. Decadenza del capitalismo e regressione sociale, cit. p. 60
  28. Per la faccenda delle miniere di Arlit nella regione di Agadez, cfr. Decadenza…,  cit, pp. 58-59.
  29. Sul ruolo del SISMI, allora guidato da Fulvio Martini, http://www.repubblica.it/online/fatti/afri/nigro/nigro.html,  in quello che fu definito il «colpo di Stato medico» del 1987, e dai tunisini «golpe costituzionale», si veda, tra l'altro, Carlo Chianura, L'Italia dietro il golpe in Tunisia. L'ammiraglio Martini: Craxi e Andreotti ordinarono al Sismi di agire, in «La Repubblica», 10-10-1999, Url: www.repubblica.it/online/fatti/afri/tuni/tuni.html.
  30. Cfr. Dante Lepore, Gemeinwesen o Gemeinshaft? Decadenza del capitalismo e regressione sociale, Gassino (TO) 2011.
  31. «Venezuela summit criticizes West», British Broadcasting Corporation (BBC) News, 27 September 2009; Steven Bodzin and Daniel Cancel, «Chavez, Qaddafi Seek Africa-South America NATO, Bank», Bloomberg, 27 September 2009; «President Chávez is Due in Libya this Saturday», Tripoli Post, 24 October 2010. Cfr. anche: Mahdi Darius Nazemroaya, The «Great Game» and the Conquest of Eurasia: Towards a World War III Scenario?, Url: http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=22140.
  32. Sara Miller Llana, «Hugo Chávez embraces Iran and Syria, wins Russian support for nuclear program», in «Christian Science Monitor», 22 ott. 2010.
  33. Due giornalisti di Bloomberg, M. Pittman e Bob Ivry, hanno ricostruito meticolosamente la vera somma di questi trasferimenti pubblici per salvare l’economia statunitense. I due giornalisti assicurano che la somma trasferita dal governo USA alle imprese in crisi è stata di 14.700 miliardi di dollari, cifra superiore allo stesso PIL USA del 2010 ed equivalente a quasi un terzo di tutto il PIL mondiale», somma uscita dalla Federal Reserve. Sommando il debito ufficiale USA, di circa 14.100 MD $, il debito pubblico USA arriva a 30.000 MD $, rendendo quanto mai imminente il tracollo economico della superpotenza, preceduta da conflittualità sociale, interetnica e separatismi. Cfr. Attilio Folliero, Il macrobuco del debito pubblico USA, 27.02.2011, in http://umbvrei.blogspot.com/2011/02/il-macrobuco-del-debito-pubblico-degli.html. In assenza di soldi disponibili, già lo Stato mormone dello Utah ha stabilito di battere moneta e rende legale il conio di monete d’argento e d’oro a livello federale. È praticamente l'anticamera per tornare a valute locali diverse dal $. Analoghe leggi sono infatti all'esame dei parlamenti di altri dodici Stati: Colorado, Georgia, Montana, Missouri, Indiana, Iowa, New Hampshire, Oklahoma, South Carolina, Tennessee, Vermont e Washington. Cfr. Idem, USA: la rivoluzione sta cominciando, 10.03.2011, in http://selvasorg.blogspot.com/2011/03/usa-la-rivoluzione-sta-cominciando.html
  34. Chems Eddine Chitour, I Saharawi sono i Palestinesi del Maghreb?, Le Grand soir – 27 novembre 2010 in www.ossin.org/sahara-occidentale/akram-belkaid-ali-lmrabet-unione-maghrebina.html
  35. Cfr. Gerald A. Perreira, British Intelligence Worked with Al Qaeda to Kill Qaddafi, 25 marzo 2011, http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=23957.
  36. Cfr. Newsletter 28, Ma gli Italiani sono davvero «brava gente»?, Url: www.ponsinmor.info/NewsLetter/NewsLetter28.pdf 
  37. Gemeinwesen o Gemeinshaft? Decadenza del capitalismo e regressione sociale, Gassino (TO) 2011. 
  38. Non è un caso che alcuni analisti fanno espresso riferimento al «piano Yinon», che sostiene che Israele agisca come una potenza imperialista per spezzare i Paesi del Medio Oriente e Nord Africa in Stati piccoli e deboli. Nel 1980, Oded Yinon, già funzionario del ministero israeliano degli esteri, dove aveva operato nel dipartimento della programmazione, scrisse un articolo: «Strategia per Israele negli anni 80», in Revue d’études palestiniennes, n 5, autunno 1982, Beirut, poi apparso in ebraico in Kivunim (Orientamenti), n 14, febbraio 1982, rivista pubblicata dal dipartimento della propaganda dell’Organizzazione Sionista Mondiale. Cfr. Linda S. Heard, La profezia di Oded Yinon, 25.04.06 in http://counterpunch.org/heard04252006.html; Mahdi Darius Nazemroaya, The Return of Pan-Arabism Amidst Upheaval: An end to Balkanization? [Il ritorno del panarabismo: fine della balcanizzazione?], 18 marzo, 2011, Url: http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=23542.
  39. Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, in «Il Programma Comunista» n. 17, 24 agosto-7 sett. 1956 
  40. Ci limitiamo qui, ma riprenderemo i dati nella scheda a parte sulla Libia, a citare alcune fonti: Enrico Piovesana, Libia, rivoluzione telecomandata, 25.03.2011 in http://it.peacereporter.net/articolo/27597/Libia%2C+rivoluzione+telecomandata; Gerald A. Perreira, British Intelligence Worked with Al Qaeda to Kill Qaddafi [L’Intelligence inglese ha lavorato con al-Qaida per uccidere Gheddafi] in http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=23957
  41. Un articolo del Sole 24 ore di Morya Longo del 27 marzo 2011 titola I bond islamici battono gli occidentali, e fornisce dati di confronto tra gli Stati Uniti, culla della finanza mondiale, il cui tasso di insolvenza delle obbligazioni aziendali, ancora nel 2010, è del 3,27% (cioè oltre 3 emittenti obbligazionari su 100 sono andati in crack), mentre quello del bond islamici è pari a zero. Significa che i bond islamici (i Sukuk) hanno un concreto valore «sottostante» (terreni, immobili, ecc.) e sono meno o per nulla affetti dalla speculazione selvaggia. «A comprare questi titoli non sono solo investitori musulmani, ma anche occidentali».
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