viernes, 29 de enero de 2016

Un appello etico non eretico agli intellettuali

Dante Lepore, Ponsinmor, 14/02/2009


Un interessante articolo (del 2009, ma attuale) sulla faccenda Olocausto. Si tratta di una polemica verso un Appello agli intellettuali lanciato dallo storico Angelo d'Orsi. In calce si riporta anche un intervento di Michele Basso, con relativa successiva risposta dell'autore. La vignetta a lato utilizata per illustrare questo articolo è stata scelta dal titolare del blog e riguarda una polemica opera di Enzo Apicella, per la quale ricevette critiche feroci da sionisti di tutto il mondo e perfino minacce di morte.

L’appello di Angelo D’Orsi agli intellettuali, affinché rompano «il silenzio» sul tentativo «genocidario» sionista nella guerra a Gaza è fatto in nome della «verità» e della «giustizia» ed è rivolto, come spiega nell’articolo del 23.01.09 riportato da Sotto le bandiere del marxismo, a coloro che appunto credono nella verità e nella giustizia (gli intellettuali, i chierici) ed hanno per questo il dovere di non tacere e di «trasmettere e suscitare la volontà di capire e di sapere».


Ma verità e giustizia da troppo tempo ormai non sono di questo mondo, fatto di classi in lotta e di vincitori e vinti, e bisogna subito rilevare che da quando questi “valori” (da Platone in poi considerati “eterni”, fuori della storia, tanto da essere collocati fuori di questo mondo) sono stati rovesciati e messi in piedi dal marxismo, hanno rivelato il loro contenuto sociale di classe, mandando in frantumi anche il ceto politico e il ruolo dei così detti intellettuali (i chierici!) come elaboratori e alfieri di tali “valori” eterni.

A parte questa considerazione, non si può dire che l’appello di Angelo D’Orsi non vada vicino alla “verità” sulla natura del conflitto israelo-palestinese e, in parte, sulle radici storiche di esso (sfiorando implicitamente la drammatica questione della “legittimità” dell’entità sionista) e persino sull’attuale contesto internazionale in cui questo genocidio si sta consumando.

Dicevo “in parte” perché, sul ruolo dell'emergente imperialismo USA e, in subordine, dell'URSS nella nascita di Israele (quando approfittarono entrambi del declino del vecchio colonialismo anglo-francese) D’Orsi non spende una parola, che avrebbe segnalato una ragione in più «da capire e spiegare» da parte degli intellettuali, ossia la natura puramente imperialista di quella che non a caso è definita una “entità” a cui mal si attaglia la qualifica di stato-nazione, che anzi è nata come attentato allo stato-nazione dei nativi, riproponendo nel XXI secolo un problema di liberazione nazionale del popolo palestinese, mentre l’Occidente l’affrontò e superò in modo progressivo nell’epopea risorgimentale.

Oggi i rampolli degenerati dei Paesi imperialisti, destri o sinistri, sono accomunati nel rivendicare un “diritto” di esistere a Israele e al massimo un po’ di pelosa pietà per una popolazione a cui questo diritto è stato conculcato.

Proprio perché è uno storico serio e, tra l’altro, nella sua gioventù, nonviolento capitiniano e gandhiano, anche esperto del fenomeno militare, da questo punto di vista Angelo D’Orsi non può non vedere «l’uso politico della Shoà» e un «asse Washington-Tel Aviv» su cui sarebbero «appiattiti» «i governi di destra» e dell’«omologo» di Frattini nel governo ombra, on. Fassino, che accrescerebbe «l’indignazione» e l’«avvilimento» per il «tacere altrui» e l’ipocrisia di chi balbetta di «eccesso di legittima difesa» da parte israeliana. A coloro che giustificano l’eccesso di vittime civili come inevitabile per la sovrappopolazione di Gaza, D’Orsi risponde: «come se fosse una colpa dei loro infelicissimi abitanti». E contesta come «disinformati e tendenziosi giochi d’equilibrio» quelli che non considerano che qui non si tratta di «un match alla pari» ma di una «asimmetria fra i contendenti» che caratterizzerebbe (ormai parla da polemologo) «le new wars del XXI secolo». Insomma una zuffa tra Davide e Golia senza importanza per la posta in gioco. Al diavolo anche Clausewitz. Al diavolo le strategie, i grandi giochi, gli interessi di fondo, le vie del petrolio, le teste di ponte. No. Neppure le guerre civili, alias rivoluzioni, nel XXI secolo. Solo guerre asimmetriche! Guerra da guerrafondai! Guerre da sonno della ragione. Il rimedio per D’Orsi è di sedersi al tavolo, trattare (v. dibattito con Furio Colombo su Micromega).

Il termine di guerre asimmetriche, caro a Samuel Huntington, riduce le guerre a guerre «di civiltà», di «culture», «ideologiche» e, di fatto, tra paesi ricchi e paesi poveri. Altro che guerre interimperialiste e guerre per procura degli imperialismi, care ai vetero leninisti! Un es. di guerra asimmetrica, sarebbe quella dell’attentato alle torri gemelle…

Per vedere le cose in questo modo, D’Orsi non fa parola per approfondire gli accordi militari (“segreti”!) e forniture di armi, già contratti dal governo Prodi e reiterati da quello di destra, né sugli interessi economici italiani nell’area, che vanno da Israele all’Iraq, limitandosi, nell’appello, a collocarli in ambito europeo accanto agli accordi («pesanti»?) di collaborazione politica e scientifica, facendone un problema di etica nelle relazioni internazionali.

Ma D’Orsi impugna anche la storia per documentare le «colpe» di Israele che renderebbero «nulle» le sue eventuali «ragioni» (che per concessione non nega), ossia le «ferite storiche costituite dal 1948» (costituzione dello Stato d’Israele e «catastrofe» dei palestinesi) e «dal 1967» (guerra dei sei giorni: annessioni dei territori e conseguenti profughi palestinesi senza speranza), cui si aggiungono le 70 condanne inflitte a Israele dalle «risoluzioni» ONU [nb, 220!] (ossia, aggiungiamo noi, un analogo degli appelli degli intellettuali!). L’ONU, questo fantoccio dalle mozioni inconcludenti, questo scatolone vuoto che ha persino condannato certi interventi degli Stati Uniti per destabilizzare tanti regimi in America Latina e altrove!

Qui finisce l’indignato j’accuse dell’intellettuale e storico Angelo D’Orsi e l’appello che ne consegue è quello di dirle, anzi gridarle, queste verità che si ridurrebbero ad «una tremenda riproposizione della Storia, in forma rovesciata, [che] vede un popolo perseguitato diventato persecutore».

Ma non è la prima volta: da quando il pio Enea, fuggito da Troia in fiamme, approdò alle coste del Lazio, dando vita a una genia di feroci conquistatori, altri «perseguitati» ne hanno seguito l’esempio, come i Padri pellegrini della Mayflowers, che dettero il via al genocidio dei nativi «americani» e i boeri, che fecero altrettanto nel Sud del continente africano.

Per una ironica proprietà transitiva, quello che D’Orsi chiama «l’uso politico della Shoà» contro cui inveisce dicendo che «è ora di finirla», ecco che viene usato «in forma rovesciata» proprio quello che lui stesso chiama lo «statuto di vittime» del popolo ebraico.

In altra occasione (su «Liberazione», 04.08.06) disse che bisognava gridare dai tetti «Basta con il ricatto dell’Olocausto». D’Orsi non nega in sostanza questo statuto di vittima dell’entità sionista, il che farebbe di lui un revisionista e negazionista; nega solo che questo «statuto storico di vittime» (che, giova ripeterlo, egli stesso riconosce, tant’è che si sente, insieme con l’Europa, vittima del ricatto) debba avere un uso politico e giustificare un «diritto di fare i carnefici» da parte israeliana.

Nella sua rubrica Cattivi Maestri su «Micromega» del 26 gennaio 1991, in occasione della giornata della «memoria», scriveva a proposito della Shoà:

«[…] intesa come il progetto del nazionalsocialismo di giungere a una “soluzione finale” della “questione ebraica”, che però era integrata in un più vasto disegno di eliminazione fisica di tutti gli elementi “perniciosi”, “deviati”, e così via».

Sarebbe il caso di essere più chiari in proposito, osservando almeno che i campi di lavoro dell’universo concentrazionario nacquero espressamente per i “comunisti” e i “socialisti”, appartenenti all’etnia, questa sì più «perniciosa», come si esprime D’Orsi, quella internazionalista, e via via, e senza un piano preordinato, vi furono vittime anche gli handicappati e i mulatti (categorie «scomparse» dall’oggi al domani) gli zingari, i testimoni di Geova, gli slavi, i greci, oltre agli ebrei e agli omosessuali.

Così lo descrive D’Orsi:

«Fu diverso quell’olocausto, da tutti i precedenti, e finora, fortunatamente, dai successivi, per le sue modalità, la sua scientificità, la sua organizzazione, esemplata sul modello della fabbrica capitalistica. Comprese le tangenti alle SS, da parte di ditte produttori [?] di forni crematori, o di gas Zyclon B [?, Zyklon!] (quello che poi fuorusciva dalle “docce”, dove gli internati erano inviati, una volta spogliati di tutto quello che loro rimaneva, dagli abiti ai capelli, tosati e venduti), per ottenere l’appalto. Non si è mai visto nella storia dell’umanità qualcosa di simile: un tentativo perfettamente strutturato, secondo modalità rigide e via via più standardizzate, “perfezionate”, di cancellazione di “categorie” (etniche, religiose, politiche ecc.); e in particolare, naturalmente, di un popolo, quello ebraico. Colpisce in questa Shoà, anche l’assenza di una vera motivazione, al di là degli slogan che valevano a convincere l’opinione pubblica: gli elementi da eliminare non erano nocivi, da alcun punto di vista, non producevano danno alla “nazione germanica”, e fra gli ebrei tedeschi non pochi erano stati fino al ’33-34, addirittura favorevoli non solo a una politica di destra, ma allo stesso hitlerismo. Nel disegno di cancellare quel popolo, come i Sinti e i Rom, v’era quella che Baumann ha definito la logica del giardiniere: il quale non odia, che so?, le margherite gialle. Decide, senza neppure sapere perché, che quei fiori vanno estirpati dal suo giardino. (Forse non gli piacciono? Non si armonizzano con gli altri colori?...). E procede: lo fa in modo il più possibile tecnologico, scientificamente organizzato, senza alcun sentimento di odio (o di pena) per quegli innocui fiori. L’eliminazione degli internati nei campi di sterminio fece ricorso alle più avanzate tecniche operative. Una volta deciso trattarsi di sottoumanità, anzi di “non umanità”, tutto diveniva lecito. E ognuno si lavava la coscienza, preventivamente. Si può provare rimorso se si schiaccia una zanzara? I campi di concentramento erano diversi dai campi di sterminio: perciò non si capisce lo sdegno davanti al paragone, forte, ma tutt’altro che immotivato, di Gaza come “campo di concentramento”: il più grande del mondo, a cielo aperto; ma il campo di concentramento rischia di essere l’anticamera di quello di sterminio. E il sospetto che per tanti israeliani la “soluzione finale” del “problema palestinese” sia la loro scomparsa. O se ne vanno, o li aiutiamo ad andarsene, anche in modo definitivo. La tragedia, come ho già scritto, di diventare “vittime delle vittime”, per i Palestinesi (cito il grande Edward Said); o, per gli ebrei, di diventare carnefici dopo essere stati vittime».

Come notavamo all’inizio, non esistono verità universali eterne, ma le uniche verità sono figlie del tempo e solo in questo senso sono rivoluzionarie, altrimenti sono mezze verità, perché sull’altra metà tacciono, complici di quel silenzio che ora D’Orsi rimprovera a chi tace e non s’indigna. Ho riportato quasi totalmente il recente brano di D’Orsi su «Micromega» per evidenziare quanto poco antisemita, revisionista e negazionista sia lo storico torinese, a dispetto di chi ingiustamente lo accusa di tanto scempio antiisraeliano. Contro queste accuse l’autore si difende rivendicando la sua appartenenza alla sinistra e la sua laicità e vituperando il fatto che a celebrare la liberazione di Aushwitz (liberata dall’Armata Rossa, «comunista»!) sia andato Fini.

D’Orsi forse dimentica, e certamente tace, sul fatto che nel «ricatto olocaustico» (e noi aggiungiamo nel “mito olocaustico”) ci stanno tutti, da un bel pezzo, a partire dal delfino di Almirante, il pentito Fini cresciuto nel brodo culturale del redattore della rivista «Difesa della razza», a Togliatti, perché il ricatto olocaustico e il mito che ne sta a fondamento storico e su cui uno storico dovrebbe pronunciarsi e non tacere, non risale al 1948 ma ancor prima della fine della guerra, e, nella teoria e nella pratica, a Theodor Herzl e al “nazionalismo” ebraico e sionismo, ma quel che più lascia perplessi è che nell’accorato appello etico di D’Orsi è lasciato al silenzio ogni ricostruzione strategica di questa disegno sionista che giunge fino alla “Grande Israele” biblica, includente l’attuale Kurdistan iraqueno per il quale stanno già brigando per operarne lo spopolamento (http://www.waynemadsenreport.com). E dimentica di dire, D’Orsi, altre parti di verità storica, come quella che la creazione dello Stato di Israele risale ad un gioco di potenze imperialiste, vincitrici del nazismo, comprendenti anche la Russia, “comunista” come lui la chiama, in realtà staliniana, ovvero nazionalcomunista; e dimentica altri tasselli di “revisione” (bipartisan di destra e di sinistra) del “mito” dell’olocausto come il “progetto”, mai documentato (e per i negazionisti impugnato) di sterminio e di soluzione finale della questione ebraica, la questione delle funzioni reali dei forni crematori e delle camere a gas, per tacere della annosa questione del numero degli “sterminati”, in realtà morti per maltrattamenti, condizioni di vita e di lavoro disumane, pestilenza e malattie, come dimostra Paul Rassinier (La menzogna di Ulisse, Graphos, Genova, 1996), partigiano e socialista che nei campi ci visse e non fu certamente un antisemita e nemmeno un collaborazionista, come tanti «amici» degli ebrei della 25 ora.

Ma soprattutto, D’Orsi, come storico e libero ricercatore laico, omette di nominare e di indignarsi contro le leggi della democratica Europa che puniscono chi sparge dubbi sull’olocausto (in Italia, e proprio nel centro sinistra, se ne fece promotore Mastella), i processi e le vessazioni contro storici e ricercatori (valga per tutti, a parte il «caso Faurisson», quello di Serge Thion, uomo della sinistra libertaria, già dipendente del Centre National de la Recherche Scientifique francese, licenziato per le sue ricerche sul revisionismo olocaustico) che hanno solo osato porre in discussione non tanto l’uso ricattatorio dell’olocausto, evidente del resto anche a lui, ma proprio l’esistenza di un “progetto” e di un “fatto” genocida specificamente antiebraico, tutti elementi questi, discussi peraltro anche da eminenti scrittori ebraici (tra gli ultimi Norman Finkelstein) e, infine, ma non meno importante, la questione delle varie versioni (vere o false?) del Diario di Anna Frank. Se di qualcosa di “preordinato” bisognerebbe parlare, sarebbe, del fatto che a tutt’oggi continua un piano elaborato già anteriormente al 1942 dal P.W.E. (Psychological Warfare Executive = Servizio per la Direzione Psicologica della Guerra) che prevedeva la diffusione in tutti i Paesi partecipanti alla guerra della tesi che il governo del Reich facesse uccidere in camere a gas milioni di ebrei e di altri gruppi etnici indesiderabili.

È ovvio che, in buona misura, notizie del genere debbano essere compulsate anche in pubblicazioni “negazioniste”, e oggi il negazionismo, attraverso un’ardita equazione, è sinonimo di antisemitismo. Fatto sta che, quando rischia questa accusa, D’Orsi rivendica la sua fede nella verità dell’Olocausto, senza fare lo storico, anche solo per contestare la tesi sul mito, indifferente e silente, sottolineiamo, sulle leggi che vietano di contestare con prove storiche il millantato ma mai provato progetto di sterminio. Qualche dubbio potrebbe sorgere solo esaminando il contrasto tra Alfred Rosenberg e gli «ingegneri» della Todt. Altrimenti permane il mito, divenuto tabù intoccabile, in cui resta oggi irretito tanto antifascismo resistenziale non solo italiano, ma europeo. Ma l’appello di D’Orsi schiva ed elude il problema.

Questo coraggio D’Orsi, lo storico e l’intellettuale, ce l’ha o preferisce che la verità e la giustizia non sia quella rivoluzionaria, figlia del tempo e delle lotta di classe, ma quella che se ne sta nell’iperuranio platonico? O più semplicemente ha paura dell’accusa di antisemitismo? Lo conferma in Cattivi Maestri su «Micromega» del 19.01.2009: « se ti azzardi a porre sotto accusa le politiche ormai genocidarie di Israele verso i Palestinesi, senza tanti complimenti vieni equiparato a chi nega la Shoà… Insomma, si viene bollati con uno dei più infamanti marchi che la storia ci abbia consegnati: il marchio dell’antisemitismo». Conosciamo il rischio, più sordidamente materiale, dell’infamia sottesa a questo marchio: in America due studiosi che hanno osato documentare le azioni della lobby ebraica hanno perso la cattedra. Ma per intellettuali seri vale la regola platonica: kalòs o kìndunos, è bello il rischio.

Ecco una ricostruzione delle radici della tragedia in Medio Oriente di Paolo Barnard: con più completezza storica, almeno documenta come quello dell’Olocausto era confezionato come un mito ricattatorio già a monte del 1948, anche se neppure l’autore si esprime sulla verità storica dell’Olocausto, http://it.youtube.com/watch?v=5NBZjjj2Kh4.

Faccio questo accostamento per concludere che ormai la discriminante tra chi affronta la questione palestinese da un punto di vista internazionalista, comunista, e chi rientra, al di la della facciata di indignazione etica, nel mito ricattatorio olocaustico, rimane quella tra l’accettazione acritica di questo mito e la rottura netta, la scelta eretica. D’Orsi non è un negazionista, tanto meno antisemita, ci mancherebbe! Crede nella «revisione», anima della storiografia, non nel revisionismo programmatico («La Stampa», 18.10.06). D’Orsi è un pacifista, seguace di Gandhi e Capitini, convinto che «ogni potere politico o statuale nato dalla guerra, e nutritosi di guerra, è condannato a morire di guerra», forse troppo dimentico del fatto (storico!) che non c’è alcuno Stato moderno nato dalla bubbola rousseauiana del contratto sociale, che non sia invece nato da una guerra, compreso quello italiano, che di guerre ne dovette fare almeno tre, ma quelli furono tempi eroici. D’Orsi, al di là delle apparenze, non è neppure un radicale: essere radicale significa andare alla radice dei problemi per risolverli. E la radice del problema israelo-palestinese non sta nel 1948, ma nel ruolo strategico nell’asse medio orientale dove le potenze imperialiste vi si contendevano e contendono la via del petrolio.

Intervento di Michele G. Basso, 14/02/09

Caro Dante,

Ci sono alcuni punti del tuo articolo che non condivido. Io seguirei un’impostazione abbastanza diversa. La propaganda separa artificiosamente due aspetti della guerra imperialista: la guerra “pulita”, condotta dai “liberatori” e da qualche esponente del campo opposto, come Rommel, e quella sporca dei campi di sterminio. Il massacro degli ebrei è visto come fatto a sé, isolato persino da eventi analoghi, come le stragi di comunisti, di rom, di omosessuali, o i cesti pieni di occhi di serbi, che gli ustascia raccoglievano, mentre le autorità fasciste italiane si accontentavano di qualche platonica protesta.

Passano in secondo piano, come normali conseguenze della guerra, i 23 milioni di morti russi, i 20 milioni ufficiali della Cina (in realtà assai più del doppio se aggiungiamo quelli morti per fame, malattie, ecc.”. La stessa sorte tocca ai barbari bombardamenti delle città, e Hiroshima e Nagasaki sono trattate in termini tecnico-militari, ci si chiede se sono servite o meno ad accelerare la fine della guerra. Ogni popolo commemora i suoi morti in un clima di sciovinismo, più o meno mascherato.

Per mettere in evidenza la criminalità della guerra imperialista nel suo complesso, e passare a una posizione internazionalista, occorre rompere queste artificiali divisioni. Quale morte terribile abbiano fatto gli ebrei (e non solo loro) nei campi, se uccisi col gas o morti per maltrattamenti, condizioni di vita disumane, fame, malattie, può avere grande rilevanza per un processo come quello di Norimberga, ma da un punto di vista di classe si tratta solo di diverse modalità di brutalità della fase finale del capitalismo. Se Hitler firmò o meno ordini di sterminio degli ebrei può essere importante per uno storico – e qui concordo che non spetta ai tribunali o alla chiesa stabilire quali linee d’indagine si possano portare avanti, e quali no - ma resta il fatto che il genocidio ci fu, e chi ha utilizzato certi settori della società come capri espiatori difficilmente poteva giungere a risultati diversi.

Piuttosto bisognerebbe mettere in risalto la connivenza delle potenze occidentali, che rimandarono indietro gli ebrei in fuga, continuarono ad investire in Germania, per non parlare della partecipazione della IBM alla schedatura degli ebrei. E – perché no? – le loro responsabilità nello scoppio della guerra, il sabotaggio di ogni tentativo di ambienti militari e diplomatici tedeschi che li scongiuravano di non fare concessioni a Hitler. Perché l’Inghilterra, se non avesse fatto la guerra, avrebbe dovuto cedere i mercati alla Germania, e gestire la propria decadenza. Doveva per forza arrivare al “casus belli”.

Sarebbe utile anche descrivere il pellegrinaggio di Herzl da Guglielmo II, dal sultano Addul Hamid II, da Vittorio Emanuele III, Pio X, Plehve e Witte, e dal segretario di stato alle colonie Chamberlain. E la collaborazione dei sionisti alla guerra, prima con l’imperialismo inglese – nonostante rotture e atti di terrorismo – e poi con gli americani, a partire dal maggio 1942, con l’incontro all’hotel Biltmore di New York, presenti Ben Gurion e Weizmann. Roosevelt divenne il “nuovo Mosè che condurrà gli ebrei fuori dal deserto” (Palestine Post, 6 marzo 1944). Il programma di Biltmore considerava i palestinesi come intrusi da espellere.

Su questo carattere imperialistico del sionismo bisogna insistere per far capire che non ha nessun diritto di rifarsi alle vittime del genocidio, delle quali è soltanto il parassita. Chi ha voluto la guerra, o si è appoggiato a uno degli schieramenti che l’hanno promossa, non ha diritto di parlare a nome delle vittime.

Ho seguito, se non altro per conoscenza personale e vicinanza “geografica”, l’esperienza della “Graphos”. Il fondatore partiva da una rivalutazione del nazionalbolscevismo (anche se arriverà a trattare questo tema soltanto molto tardi, in un’introduzione lunghissima a un’opera di Serge sulla rivoluzione tedesca del 1923), ed è giunto a un fallimento politico completo, ottenendo il contrario di ciò che voleva, apprezzamenti a destra, rottura a sinistra. “L’olocausto come mito fondante di Israele”, sulla scia di Garaudy: ma pensare che uno stato imperialista sia fondato su un mito è idealismo puro. Se si vuole effettivamente colpire questo imperialismo bisogna mettere in evidenza la rete d’interessi, economici, militari, politici che ne sono la base reale e che spiegano il suo virulento militarismo.

I sionisti si nascondono sempre dietro le vittime del nazismo, bisogna riportare l’attenzione sul vero problema presente, la sua funzione di cane da guardia dell'imperialismo occidentale nel Medio Oriente.

Risposta di Dante Lepore, 14 /02/09.

Caro Michele,

Premetto che sono d’accordo su quasi tutte le singole considerazioni che fai, anche se mi riesce difficile comprenderne il senso d’insieme e su quale piano esse si svolgano. Così, anche, non riesco ad afferrare quali siano quegli “alcuni punti” che dici di non condividere, data “l’impostazione” diversa che tu seguiresti, ma in quale direzione e con quale obbiettivo? (Il classico: dove vai a parare?) Né vorrei infine, dalla polemica (per ora virtuale) con l’intellettuale D’Orsi, transitare obtorto collo a quella con un militante comunista, internazionalista. Con D’Orsi, lo storico, si trattava di un argomento che attiene alla coerenza, alla completezza, persino alla deontologia della ricerca storiografica, con l’intellettuale redattore dell’appello agli intellettuali è chiamato in causa quel coraggio civile ed etico che da sempre circola più sulla bocca che negli atti di questo strato sociale, mentre nel tuo caso si tratta di una battaglia in difesa del marxismo e dell’internazionalismo, che è altra cosa.

Giova pertanto richiamare lo scopo della mia nota all’appello di uno storico, Angelo D’Orsi, che tu neppure nomini per poi concludere alla fine con “l’esperienza della Graphos” (la rivalutazione del nazionalbolscevismo). Insomma, invece di parlare di un argomento, se ne dilata un altro, per quanto connesso con tutta la problematica. Magari la mia polemica con D’Orsi fosse arrivata su questo terreno! Ma ad evitare fraintendimenti e confusioni, occorre precisare che la “rivalutazione del nazionalbolscevismo” che tu attribuisci alla casa editrice Graphos, non mi tocca, come non mi tocca la lunga introduzione (ma anche l’appendice) di Corrado Basile agli articoli di Victor Serge sulla Germania del 1923. Piuttosto la maniera in cui affronterei la questione del nazionalbolscevismo è a partire dalla polemica Rosa Luxemburg-Lenin sul ruolo di Pilsudski, in definitiva sul ruolo del nazionalismo polacco, e successivamente quando Béla Kun introdusse il termine durante il governo rivoluzionario ungherese (1918-19). La questione attraversa quel decennio, passando per il movimento consigliare tedesco e poi per il sindacalismo rivoluzionario italiano, significando che un anticapitalismo non marxista è indispensabile allo sviluppo del fascismo. Ma per discutere a dovere la questione, certamente importante, bisognerebbe risalire al trattato di Rapallo, per focalizzare proprio quel periodo del nazionalismo “antimperialista” del periodo della mancata rivoluzione tedesca nel 1923. Infine, ma non per importanza, sarebbe anche indispensabile ricostruire gli addentellati culturali, filosofici, esteticisti del nazionalbolscevismo nella “rivoluzione conservatrice” come espressa dall’ideologia aristocratica che, da degenerazione irrazionalistica (v. Lukacs) passa da Drieu La Rochelle, al movimento Dada (H. Ball) giù giù, guarda caso, fino a Sorel (ammiratore di Lenin e Mussolini!). Per una focalizzazione del problema posso rinviarti alle poche pagine (dunque leggibili molto più velocemente della “lunga Introduzione” di Basile) di Loren Goldner, Dal nazionalbolscevismo all’ecologismo, in L’avanguardia della regressione, PonSinMor, Torino, 2004, pp. 102-106, che vi include pensatori come Heidegger e statisti come Mao tse Tung.

Per la precisione, e scusami se te lo dico, è troppo sommario che tu citi la tesi del nazionalbolscevismo versione Graphos a proposito del libro di Garaudy, oltretutto distorcendone il senso. La tesi di Garaudy tu la virgoletti così: “L’olocausto come mito fondante di Israele”, ma basta il titolo “I miti fondatori della politica israeliana” per smentirne l’interpretazione di una inversione idealistica del problema. Quanto a Garaudy, per onestà, occorre dire che Graphos premette subito di non ritenerlo, oggi, un marxista, e che nel suo libro, volto a combattere la confusione tra mito e storia e a fornire dati di fatto per la ricostruzione del mito sionista di quello che non a caso ha di proposito assunto la terminologia rituale-sacrale dell’Olocausto, Garaudy espone la tesi che tu gli attribuisci: “pensare che uno stato imperialista sia fondato su un mito è puro idealismo”. Ma qui, caro Michele, non stiamo discutendo della natura dell’imperialismo, se sia una politica come sosteneva Kautsky o la “fase suprema del capitalismo (come sosteneva Lenin). Peraltro qualche dubbio ci sarebbe quando definisci il sionismo come “cane da guardia dell’imperialismo occidentale nel Medio Oriente”, dal momento che è difficile percepire in concreto il contenuto di questa astrazione che è come la notte in cui tutte la vacche sono nere, mentre nel concreto quel che si percepisce realmente così come è oggi, e ci sarebbe da aggiungere qualcosa su come è nato in Europa, è sostenuto senza condizioni dagli Stati Uniti sia come base di accordi più e meno stretti con i concorrenti europei sia come asse della presenza strategica nel Medioriente, “vitale” per gli USA e come tale fonte di ben cinque guerre; sionismo alimentato e supportato dalla ultrapotente lobby ebraica che influenza sia la potenza Usa sia la così detta opinione pubblica media mondiale.

Per il resto

1. che il massacro degli ebrei non sia da vedere “come fatto a sé isolato”, sono d’accordo ed è quanto ho sostenuto (e ancora una volta non si capisce perché lo sottolinei o dove stia il disaccordo)

2. Sono d’accordo con te anche sui dettagli e le cifre fornite degli altri massacri, su Hiroshima e Nagasaki: e, per dimostrare il tuo assunto, che non si tratta di questioni tecnico-militari, io aggiungerei il bombardamento di Dresda, a guerra largamente conclusa!.. Per dire che l’Occidente è anch’esso un mito con cui fare i conti, ma ad altra occasione.

Ma che “i popoli commemorano i propri morti in un clima di sciovinismo più o meno mascherato” è davvero un’espressione che non trova riscontro nei fatti: da quanto in qua il così detto “popolo” è un soggetto reale nel capitalismo? Tu credi davvero che sia il “popolo” italiano quello delle retoriche delle giornate della “memoria”? O quello del mito degli italiani “brava gente”? Certo che c’è sciovinismo in quelle commemorazioni, ma fortunatamente dietro non c’è l’astrazione popolo ma semplicemente gli interessi forti in quel momento. Il problema del popolo-stato-nazione è tramontato, da quando fatti e misfatti del capitalismo riguardano le classi in lotta. Se vogliamo essere rigorosi la questione della sorte del così detto “popolo” ebraico, in realtà della piccola borghesia di origine ebraica concentrata nel triangolo Germania-Polonia-Ungheria e variamente in Europa, di fronte alla crisi inter guerra del capitalismo mondiale culminante nel 1929 e suoi effetti in Germania, riguardava proprio lo schiacciamento di questo strato sociale nel processo di concentrazione e centralizzazione del capitale. Un capitolo che si può e si deve approfondire nei dettagli.

Né si può invece essere indifferenti, o meglio cadere nell’indifferentismo “se uccisi con le camere a gas o uccisi per maltrattamenti”, perché entrambe le “modalità di brutalità” mettono capo, se accertate, a due diverse realtà, a due diversi fini. Si da il caso però che le camere a gas e i forni crematori ancora oggi vengano confusi nella vulgata popolare, e che dell’esistenza di camere a gas con precipuo scopo di sterminio non esistano prove storiche, mentre esistono prove di forni crematori per la cremazione dei cadaveri, cioè di persone già morte. E di luoghi di disinfestazione di fronte alle accertate epidemie anche di peste. Il perché dell’accanimento contro la messa a punto storica di questo problema è connesso proprio al “mito” preconfezionato dello sterminio programmato di un popolo, stante anche il fatto che il nazismo certamente era interessato ad una massiccia deportazione della piccola borghesia ebraica, piuttosto che ad una costosa e improduttiva decimazione.

Sono d’accordo con te anche su quella che tu chiami “connivenza” delle potenze “occidentali” (e chi te la toglie dalla testa questa mostruosa astrazione! Nomi e cognomi ci vogliono!) nel respingere al mittente gli ebrei in fuga. Preciserei solo che di moltissimi di questi (un milione secondo Eichmann, che però si riferisce ad un solo caso), secondo la famosa missione mediatrice di Joël Brand (in A. Weissberg, La storia di Joël Brand), si tratta di veri accordi di emigrazione clandestina organizzate dalle SS del Judenkommando, con Himmler direttamente, tramite organizzazioni semiclandestine di ebrei, ungheresi in questo caso, tollerate anche con la corruzione. Ma il ministro di Stato britannico Lord Moyne, a dispetto delle proclamazioni umanitarie degli Alleati, rispose picche. Ma questi sono dettagli per chi come D’Orsi e la genia degli intellettuali non si pone neppure il problema.

D’accordo con te sul pellegrinaggio di Herzl ecc. nella costruzione del sionismo. Il sionismo è figlio del nazionalismo europeo e degli intrecci della lotta interimperialista che si conduceva sul terreno europeo e comprendeva la potenza Usa in ascesa. Ti dirò un piccolo particolare, il brodo culturale di Herzl si nutre di un classico che è opera di un astigiano, il Della tirannide di Vittorio Alfieri. Ti dice qualcosa? D’accordo, ripeto, d’accordo che il sionismo sia un prodotto dell’imperialismo e che l’imperialismo si cibi delle vittime del genocidio, sempre precisando che nelle lotte tra imperialismi non ha senso l’aggressore e l’aggredito, ma solo tra imperialisti e vittime, sia nella guerra diretta che nei campi di lavoro che nelle fabbriche.
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