Dante Lepore, Ponsinmor, 14/02/2009
L’appello di Angelo D’Orsi agli intellettuali, affinché
rompano «il silenzio» sul tentativo «genocidario» sionista nella guerra a Gaza
è fatto in nome della «verità» e della «giustizia» ed è rivolto, come spiega nell’articolo
del 23.01.09 riportato da Sotto le bandiere del marxismo, a coloro
che appunto credono nella verità e nella giustizia (gli intellettuali, i
chierici) ed hanno per questo il dovere di non tacere e di «trasmettere e
suscitare la volontà di capire e di sapere».
Ma verità e giustizia da troppo tempo ormai
non sono di questo mondo, fatto di classi in lotta e di vincitori e vinti, e bisogna subito rilevare che da quando questi “valori” (da
Platone in poi considerati “eterni”, fuori della storia, tanto da essere
collocati fuori di questo mondo) sono stati rovesciati e messi in piedi dal
marxismo, hanno rivelato il loro contenuto sociale di classe, mandando in
frantumi anche il ceto politico e il ruolo dei così detti intellettuali (i
chierici!) come elaboratori e alfieri di tali “valori” eterni.
A
parte questa considerazione, non si può dire che l’appello di Angelo D’Orsi non
vada vicino alla “verità” sulla natura del conflitto israelo-palestinese e, in
parte, sulle radici storiche di esso (sfiorando implicitamente la drammatica
questione della “legittimità” dell’entità sionista) e persino sull’attuale
contesto internazionale in cui questo genocidio si sta consumando.
Dicevo
“in parte” perché, sul ruolo dell'emergente imperialismo USA e, in subordine,
dell'URSS nella nascita di Israele (quando approfittarono entrambi del declino
del vecchio colonialismo anglo-francese) D’Orsi non spende una parola, che
avrebbe segnalato una ragione in più «da capire e spiegare» da parte degli
intellettuali, ossia la natura puramente imperialista di quella che non a caso
è definita una “entità” a cui mal si
attaglia la qualifica di stato-nazione, che anzi è nata come attentato allo
stato-nazione dei nativi, riproponendo nel XXI secolo un problema di
liberazione nazionale del popolo palestinese, mentre l’Occidente l’affrontò e
superò in modo progressivo nell’epopea risorgimentale.
Oggi i rampolli degenerati dei Paesi
imperialisti, destri o sinistri, sono accomunati nel rivendicare un “diritto”
di esistere a Israele e al massimo un po’ di pelosa pietà per una popolazione a
cui questo diritto è stato conculcato.
Proprio
perché è uno storico serio e, tra l’altro, nella sua gioventù, nonviolento
capitiniano e gandhiano, anche esperto del fenomeno militare, da questo punto
di vista Angelo D’Orsi non può non vedere «l’uso
politico della Shoà» e un «asse
Washington-Tel Aviv» su cui sarebbero «appiattiti» «i governi di destra» e
dell’«omologo» di Frattini nel governo ombra, on. Fassino, che accrescerebbe
«l’indignazione» e l’«avvilimento» per il «tacere altrui» e l’ipocrisia di chi
balbetta di «eccesso di legittima difesa» da parte israeliana. A coloro che
giustificano l’eccesso di vittime civili come inevitabile per la
sovrappopolazione di Gaza, D’Orsi risponde: «come se fosse una colpa dei loro
infelicissimi abitanti». E contesta come «disinformati e tendenziosi giochi
d’equilibrio» quelli che non considerano che qui non si tratta di «un match
alla pari» ma di una «asimmetria fra i contendenti» che caratterizzerebbe
(ormai parla da polemologo) «le new wars del XXI secolo». Insomma una
zuffa tra Davide e Golia senza importanza per la posta in gioco. Al diavolo
anche Clausewitz. Al diavolo le strategie, i grandi giochi, gli interessi di
fondo, le vie del petrolio, le teste di ponte. No. Neppure le guerre civili,
alias rivoluzioni, nel XXI secolo. Solo guerre asimmetriche! Guerra da
guerrafondai! Guerre da sonno della ragione. Il rimedio per D’Orsi è di sedersi
al tavolo, trattare (v. dibattito con Furio Colombo su Micromega).
Il
termine di guerre asimmetriche, caro a Samuel Huntington, riduce le guerre a
guerre «di civiltà», di «culture», «ideologiche» e, di fatto, tra paesi ricchi
e paesi poveri. Altro che guerre interimperialiste e guerre per procura degli
imperialismi, care ai vetero leninisti! Un es. di guerra asimmetrica, sarebbe
quella dell’attentato alle torri gemelle…
Per
vedere le cose in questo modo, D’Orsi non fa parola per approfondire gli
accordi militari (“segreti”!) e forniture di armi, già contratti dal governo
Prodi e reiterati da quello di destra, né sugli interessi economici italiani
nell’area, che vanno da Israele all’Iraq, limitandosi, nell’appello, a
collocarli in ambito europeo accanto agli accordi («pesanti»?) di
collaborazione politica e scientifica, facendone un problema di etica nelle
relazioni internazionali.
Ma
D’Orsi impugna anche la storia per documentare le «colpe» di Israele che
renderebbero «nulle» le sue eventuali «ragioni» (che per concessione non nega),
ossia le «ferite storiche costituite dal 1948» (costituzione dello Stato
d’Israele e «catastrofe» dei palestinesi) e «dal 1967» (guerra dei sei giorni:
annessioni dei territori e conseguenti profughi palestinesi senza speranza),
cui si aggiungono le 70 condanne inflitte a Israele dalle «risoluzioni» ONU
[nb, 220!] (ossia, aggiungiamo noi, un analogo degli appelli degli
intellettuali!). L’ONU, questo fantoccio
dalle mozioni inconcludenti, questo scatolone vuoto che ha persino condannato
certi interventi degli Stati Uniti per destabilizzare tanti regimi in America
Latina e altrove!
Qui
finisce l’indignato j’accuse dell’intellettuale e storico Angelo D’Orsi
e l’appello che ne consegue è quello di dirle, anzi gridarle, queste verità che
si ridurrebbero ad «una tremenda riproposizione della Storia, in forma
rovesciata, [che] vede un popolo perseguitato diventato persecutore».
Ma
non è la prima volta: da quando il pio Enea, fuggito da Troia in fiamme,
approdò alle coste del Lazio, dando vita a una genia di feroci conquistatori,
altri «perseguitati» ne hanno seguito l’esempio, come i Padri pellegrini della Mayflowers,
che dettero il via al genocidio dei nativi «americani» e i boeri, che fecero
altrettanto nel Sud del continente africano.
Per
una ironica proprietà transitiva, quello che D’Orsi chiama «l’uso politico
della Shoà» contro cui inveisce dicendo che «è ora di finirla», ecco che viene
usato «in forma rovesciata» proprio quello che lui stesso chiama lo «statuto di
vittime» del popolo ebraico.
In
altra occasione (su «Liberazione», 04.08.06) disse che bisognava gridare dai
tetti «Basta con il ricatto dell’Olocausto». D’Orsi non nega in sostanza questo
statuto di vittima dell’entità sionista, il che farebbe di lui un revisionista
e negazionista; nega solo che questo «statuto storico di vittime» (che, giova
ripeterlo, egli stesso riconosce, tant’è che si sente, insieme con l’Europa,
vittima del ricatto) debba avere un uso politico e giustificare un «diritto di
fare i carnefici» da parte israeliana.
Nella
sua rubrica Cattivi Maestri su «Micromega» del 26 gennaio 1991, in
occasione della giornata della «memoria», scriveva a proposito della Shoà:
«[…] intesa come il progetto del
nazionalsocialismo di giungere a una “soluzione finale” della “questione
ebraica”, che però era integrata in un più vasto disegno di eliminazione fisica
di tutti gli elementi “perniciosi”, “deviati”, e così via».
Sarebbe
il caso di essere più chiari in proposito, osservando almeno che i campi di
lavoro dell’universo concentrazionario nacquero espressamente per i “comunisti”
e i “socialisti”, appartenenti all’etnia, questa sì più «perniciosa», come si
esprime D’Orsi, quella internazionalista, e via via, e senza un piano
preordinato, vi furono vittime anche gli handicappati e i mulatti (categorie
«scomparse» dall’oggi al domani) gli zingari, i testimoni di Geova, gli slavi,
i greci, oltre agli ebrei e agli omosessuali.
Così
lo descrive D’Orsi:
«Fu
diverso quell’olocausto, da tutti i precedenti, e finora, fortunatamente, dai
successivi, per le sue modalità, la sua scientificità, la sua organizzazione,
esemplata sul modello della fabbrica capitalistica. Comprese le tangenti alle
SS, da parte di ditte produttori [?] di forni crematori, o di gas Zyclon
B [?, Zyklon!] (quello che poi fuorusciva dalle “docce”, dove gli
internati erano inviati, una volta spogliati di tutto quello che loro rimaneva,
dagli abiti ai capelli, tosati e venduti), per ottenere l’appalto. Non si è mai
visto nella storia dell’umanità qualcosa di simile: un tentativo perfettamente
strutturato, secondo modalità rigide e via via più standardizzate,
“perfezionate”, di cancellazione di “categorie” (etniche, religiose, politiche
ecc.); e in particolare, naturalmente, di un popolo, quello ebraico. Colpisce
in questa Shoà, anche l’assenza di una vera motivazione, al di là degli slogan
che valevano a convincere l’opinione pubblica: gli elementi da eliminare non
erano nocivi, da alcun punto di vista, non producevano danno alla “nazione
germanica”, e fra gli ebrei tedeschi non pochi erano stati fino al ’33-34, addirittura
favorevoli non solo a una politica di destra, ma allo stesso hitlerismo. Nel
disegno di cancellare quel popolo, come i Sinti e i Rom, v’era quella che
Baumann ha definito la logica del giardiniere: il quale non odia, che so?, le
margherite gialle. Decide, senza neppure sapere perché, che quei fiori vanno
estirpati dal suo giardino. (Forse non gli piacciono? Non si armonizzano con
gli altri colori?...). E procede: lo fa in modo il più possibile tecnologico,
scientificamente organizzato, senza alcun sentimento di odio (o di pena) per
quegli innocui fiori. L’eliminazione degli internati nei campi di sterminio
fece ricorso alle più avanzate tecniche operative. Una volta deciso trattarsi
di sottoumanità, anzi di “non umanità”, tutto diveniva lecito. E ognuno si
lavava la coscienza, preventivamente. Si può provare rimorso se si schiaccia
una zanzara? I campi di concentramento erano diversi dai campi di sterminio:
perciò non si capisce lo sdegno davanti al paragone, forte, ma tutt’altro che
immotivato, di Gaza come “campo di concentramento”: il più grande del mondo, a
cielo aperto; ma il campo di concentramento rischia di essere l’anticamera di
quello di sterminio. E il sospetto che per tanti israeliani la “soluzione
finale” del “problema palestinese” sia la loro scomparsa. O se ne vanno, o li
aiutiamo ad andarsene, anche in modo definitivo. La tragedia, come ho già
scritto, di diventare “vittime delle vittime”, per i Palestinesi (cito il
grande Edward Said); o, per gli ebrei, di diventare carnefici dopo essere stati
vittime».
Come
notavamo all’inizio, non esistono verità universali eterne, ma le uniche verità
sono figlie del tempo e solo in questo senso sono rivoluzionarie, altrimenti
sono mezze verità, perché sull’altra metà tacciono, complici di quel silenzio
che ora D’Orsi rimprovera a chi tace e non s’indigna. Ho riportato quasi
totalmente il recente brano di D’Orsi su «Micromega» per evidenziare quanto
poco antisemita, revisionista e negazionista sia lo storico torinese, a
dispetto di chi ingiustamente lo accusa di tanto scempio antiisraeliano. Contro
queste accuse l’autore si difende rivendicando la sua appartenenza alla
sinistra e la sua laicità e vituperando il fatto che a celebrare la liberazione
di Aushwitz (liberata dall’Armata Rossa, «comunista»!) sia andato Fini.
D’Orsi
forse dimentica, e certamente tace, sul fatto che nel «ricatto olocaustico» (e
noi aggiungiamo nel “mito olocaustico”)
ci stanno tutti, da un bel pezzo, a partire dal delfino di Almirante, il
pentito Fini cresciuto nel brodo culturale del redattore della rivista «Difesa
della razza», a Togliatti, perché il ricatto olocaustico e il mito che ne sta a
fondamento storico e su cui uno storico dovrebbe pronunciarsi e non
tacere, non risale al 1948 ma ancor prima della fine della guerra, e, nella
teoria e nella pratica, a Theodor Herzl e al “nazionalismo” ebraico e sionismo,
ma quel che più lascia perplessi è che nell’accorato appello etico di D’Orsi è
lasciato al silenzio ogni ricostruzione strategica di questa disegno sionista
che giunge fino alla “Grande Israele” biblica, includente l’attuale Kurdistan
iraqueno per il quale stanno già brigando per operarne lo spopolamento (http://www.waynemadsenreport.com).
E dimentica di dire, D’Orsi, altre parti di verità storica, come quella che la
creazione dello Stato di Israele risale ad un gioco di potenze imperialiste,
vincitrici del nazismo, comprendenti anche la Russia, “comunista” come lui la
chiama, in realtà staliniana, ovvero nazionalcomunista; e dimentica altri
tasselli di “revisione” (bipartisan di destra e di sinistra) del “mito”
dell’olocausto come il “progetto”, mai documentato (e per i negazionisti
impugnato) di sterminio e di soluzione finale della questione ebraica, la
questione delle funzioni reali dei forni crematori e delle camere a gas, per
tacere della annosa questione del numero degli “sterminati”, in realtà morti
per maltrattamenti, condizioni di vita e di lavoro disumane, pestilenza e
malattie, come dimostra Paul Rassinier
(La menzogna di Ulisse, Graphos,
Genova, 1996), partigiano e socialista che nei campi ci visse e non fu
certamente un antisemita e nemmeno un collaborazionista, come tanti «amici»
degli ebrei della 25 ora.
Ma
soprattutto, D’Orsi, come storico e libero ricercatore laico, omette di
nominare e di indignarsi contro le leggi della democratica Europa che puniscono
chi sparge dubbi sull’olocausto (in Italia, e proprio nel centro sinistra, se
ne fece promotore Mastella), i processi e le vessazioni contro storici e
ricercatori (valga per tutti, a parte il «caso Faurisson», quello di Serge
Thion, uomo della sinistra libertaria, già dipendente del Centre National de la
Recherche Scientifique francese, licenziato per le sue ricerche sul
revisionismo olocaustico) che hanno solo osato porre in discussione non tanto
l’uso ricattatorio dell’olocausto, evidente del resto anche a lui, ma proprio
l’esistenza di un “progetto” e di un “fatto” genocida specificamente
antiebraico, tutti elementi questi, discussi peraltro anche da eminenti
scrittori ebraici (tra gli ultimi Norman Finkelstein) e, infine, ma non meno
importante, la questione delle varie versioni (vere o false?) del Diario di
Anna Frank. Se di qualcosa di “preordinato” bisognerebbe parlare, sarebbe,
del fatto che a tutt’oggi continua un piano elaborato già anteriormente al 1942
dal P.W.E. (Psychological Warfare
Executive = Servizio per la Direzione Psicologica della Guerra) che
prevedeva la diffusione in tutti i Paesi partecipanti alla guerra della tesi
che il governo del Reich facesse uccidere in camere a gas milioni di ebrei e di
altri gruppi etnici indesiderabili.
È
ovvio che, in buona misura, notizie del genere debbano essere compulsate anche
in pubblicazioni “negazioniste”, e oggi il negazionismo, attraverso un’ardita
equazione, è sinonimo di antisemitismo. Fatto sta che, quando rischia questa
accusa, D’Orsi rivendica la sua fede nella verità dell’Olocausto, senza fare lo
storico, anche solo per contestare la tesi sul mito, indifferente e silente,
sottolineiamo, sulle leggi che vietano di contestare con prove storiche il
millantato ma mai provato progetto di
sterminio. Qualche dubbio potrebbe sorgere solo esaminando il contrasto tra
Alfred Rosenberg e gli «ingegneri» della Todt. Altrimenti permane il mito,
divenuto tabù intoccabile, in cui resta oggi irretito tanto antifascismo
resistenziale non solo italiano, ma europeo. Ma l’appello di D’Orsi schiva ed
elude il problema.
Questo
coraggio D’Orsi, lo storico e l’intellettuale, ce l’ha o preferisce che la
verità e la giustizia non sia quella rivoluzionaria, figlia del tempo e delle
lotta di classe, ma quella che se ne sta nell’iperuranio platonico? O più
semplicemente ha paura dell’accusa di antisemitismo? Lo conferma in Cattivi
Maestri su «Micromega» del 19.01.2009: « se ti azzardi a porre sotto
accusa le politiche ormai genocidarie di Israele verso i Palestinesi, senza
tanti complimenti vieni equiparato a chi nega la Shoà… Insomma, si viene
bollati con uno dei più infamanti marchi che la storia ci abbia consegnati: il
marchio dell’antisemitismo». Conosciamo il rischio, più sordidamente materiale,
dell’infamia sottesa a questo marchio: in America
due studiosi che hanno osato documentare le azioni della lobby ebraica hanno
perso la cattedra. Ma per intellettuali seri vale la regola platonica: kalòs
o kìndunos, è bello il rischio.
Ecco
una ricostruzione delle radici della tragedia in Medio Oriente di Paolo
Barnard: con più completezza storica, almeno documenta come quello
dell’Olocausto era confezionato come un mito ricattatorio già a monte del 1948,
anche se neppure l’autore si esprime sulla verità storica dell’Olocausto, http://it.youtube.com/watch?v=5NBZjjj2Kh4.
Faccio
questo accostamento per concludere che ormai la discriminante tra chi affronta
la questione palestinese da un punto di vista internazionalista, comunista, e
chi rientra, al di la della facciata di indignazione etica, nel mito
ricattatorio olocaustico, rimane quella tra l’accettazione acritica di questo
mito e la rottura netta, la scelta eretica. D’Orsi non è un negazionista, tanto
meno antisemita, ci mancherebbe! Crede nella «revisione», anima della
storiografia, non nel revisionismo programmatico («La Stampa», 18.10.06).
D’Orsi è un pacifista, seguace di Gandhi e Capitini, convinto che «ogni potere
politico o statuale nato dalla guerra, e nutritosi di guerra, è condannato a morire
di guerra», forse troppo dimentico del fatto (storico!) che non c’è alcuno Stato moderno nato dalla
bubbola rousseauiana del contratto sociale, che non sia invece nato da una
guerra, compreso quello italiano, che di guerre ne dovette fare almeno tre, ma
quelli furono tempi eroici. D’Orsi, al di là delle apparenze, non è neppure un
radicale: essere radicale significa andare alla radice dei problemi per
risolverli. E la radice del problema israelo-palestinese non sta nel 1948, ma
nel ruolo strategico nell’asse medio orientale dove le potenze imperialiste vi
si contendevano e contendono la via del petrolio.
Intervento
di Michele G. Basso, 14/02/09
Caro Dante,
Ci sono alcuni punti del tuo articolo che non
condivido. Io seguirei un’impostazione abbastanza diversa. La propaganda separa
artificiosamente due aspetti della guerra imperialista: la guerra “pulita”,
condotta dai “liberatori” e da qualche esponente del campo opposto, come
Rommel, e quella sporca dei campi di sterminio. Il massacro degli ebrei è visto
come fatto a sé, isolato persino da eventi analoghi, come le stragi di
comunisti, di rom, di omosessuali, o i cesti pieni di occhi di serbi, che gli
ustascia raccoglievano, mentre le autorità fasciste italiane si accontentavano
di qualche platonica protesta.
Passano in secondo piano, come normali conseguenze
della guerra, i 23 milioni di morti russi, i 20 milioni ufficiali della Cina
(in realtà assai più del doppio se aggiungiamo quelli morti per fame, malattie,
ecc.”. La stessa sorte tocca ai barbari bombardamenti delle città, e Hiroshima
e Nagasaki sono trattate in termini tecnico-militari, ci si chiede se sono
servite o meno ad accelerare la fine della guerra. Ogni popolo commemora i suoi
morti in un clima di sciovinismo, più o meno mascherato.
Per mettere in evidenza la criminalità della guerra
imperialista nel suo complesso, e passare a una posizione internazionalista,
occorre rompere queste artificiali divisioni. Quale morte terribile abbiano
fatto gli ebrei (e non solo loro) nei campi, se uccisi col gas o morti per
maltrattamenti, condizioni di vita disumane, fame, malattie, può avere grande
rilevanza per un processo come quello di Norimberga, ma da un punto di vista di
classe si tratta solo di diverse modalità di brutalità della fase finale del
capitalismo. Se Hitler firmò o meno ordini di sterminio degli ebrei può essere
importante per uno storico – e qui concordo che non spetta ai tribunali o alla
chiesa stabilire quali linee d’indagine si possano portare avanti, e quali no -
ma resta il fatto che il genocidio ci fu, e chi ha utilizzato certi settori
della società come capri espiatori difficilmente poteva giungere a risultati
diversi.
Piuttosto bisognerebbe mettere in risalto la
connivenza delle potenze occidentali, che rimandarono indietro gli ebrei in
fuga, continuarono ad investire in Germania, per non parlare della
partecipazione della IBM alla schedatura degli ebrei. E – perché no? – le loro
responsabilità nello scoppio della guerra, il sabotaggio di ogni tentativo di
ambienti militari e diplomatici tedeschi che li scongiuravano di non fare
concessioni a Hitler. Perché l’Inghilterra, se non avesse fatto la guerra,
avrebbe dovuto cedere i mercati alla Germania, e gestire la propria decadenza.
Doveva per forza arrivare al “casus belli”.
Sarebbe utile anche descrivere il pellegrinaggio di
Herzl da Guglielmo II, dal sultano Addul Hamid II, da Vittorio Emanuele III,
Pio X, Plehve e Witte, e dal segretario di stato alle colonie Chamberlain. E la
collaborazione dei sionisti alla guerra, prima con l’imperialismo inglese – nonostante
rotture e atti di terrorismo – e poi con gli americani, a partire dal maggio
1942, con l’incontro all’hotel Biltmore di New York, presenti Ben Gurion e
Weizmann. Roosevelt divenne il “nuovo Mosè che condurrà gli ebrei fuori dal
deserto” (Palestine Post, 6 marzo 1944). Il programma di Biltmore considerava i
palestinesi come intrusi da espellere.
Su questo carattere imperialistico del sionismo
bisogna insistere per far capire che non ha nessun diritto di rifarsi alle
vittime del genocidio, delle quali è soltanto il parassita. Chi ha voluto la
guerra, o si è appoggiato a uno degli schieramenti che l’hanno promossa, non ha
diritto di parlare a nome delle vittime.
Ho seguito, se non altro per conoscenza personale e
vicinanza “geografica”, l’esperienza della “Graphos”. Il fondatore partiva da
una rivalutazione del nazionalbolscevismo (anche se arriverà a trattare questo
tema soltanto molto tardi, in un’introduzione lunghissima a un’opera di Serge
sulla rivoluzione tedesca del 1923), ed è giunto a un fallimento politico
completo, ottenendo il contrario di ciò che voleva, apprezzamenti a destra,
rottura a sinistra. “L’olocausto come mito fondante di Israele”, sulla scia di
Garaudy: ma pensare che uno stato imperialista sia fondato su un mito è
idealismo puro. Se si vuole effettivamente colpire questo imperialismo bisogna
mettere in evidenza la rete d’interessi, economici, militari, politici che ne
sono la base reale e che spiegano il suo virulento militarismo.
I sionisti si nascondono sempre dietro le vittime del
nazismo, bisogna riportare l’attenzione sul vero problema presente, la sua
funzione di cane da guardia dell'imperialismo occidentale nel Medio Oriente.
Risposta di Dante Lepore, 14 /02/09.
Caro Michele,
Premetto che sono d’accordo su quasi tutte le singole
considerazioni che fai, anche se mi riesce difficile comprenderne il senso
d’insieme e su quale piano esse si svolgano. Così, anche, non riesco ad
afferrare quali siano quegli “alcuni punti” che dici di non condividere, data
“l’impostazione” diversa che tu seguiresti, ma in quale direzione e con quale
obbiettivo? (Il classico: dove vai a parare?) Né vorrei infine, dalla polemica
(per ora virtuale) con l’intellettuale D’Orsi, transitare obtorto collo a
quella con un militante comunista, internazionalista. Con D’Orsi, lo storico,
si trattava di un argomento che attiene alla coerenza, alla completezza,
persino alla deontologia della ricerca storiografica, con l’intellettuale
redattore dell’appello agli intellettuali è chiamato in causa quel coraggio
civile ed etico che da sempre circola più sulla bocca che negli atti di questo
strato sociale, mentre nel tuo caso si tratta di una battaglia in difesa del
marxismo e dell’internazionalismo, che è altra cosa.
Giova pertanto richiamare lo scopo della mia nota
all’appello di uno storico, Angelo D’Orsi, che tu neppure nomini per poi
concludere alla fine con “l’esperienza della Graphos” (la rivalutazione del
nazionalbolscevismo). Insomma, invece di parlare di un argomento, se ne dilata
un altro, per quanto connesso con tutta la problematica. Magari la mia polemica
con D’Orsi fosse arrivata su questo terreno! Ma ad evitare fraintendimenti e
confusioni, occorre precisare che la “rivalutazione del nazionalbolscevismo”
che tu attribuisci alla casa editrice Graphos, non mi tocca, come non mi tocca
la lunga introduzione (ma anche l’appendice) di Corrado Basile agli articoli di
Victor Serge sulla Germania del 1923. Piuttosto la maniera in cui affronterei
la questione del nazionalbolscevismo è a partire dalla polemica Rosa
Luxemburg-Lenin sul ruolo di Pilsudski, in definitiva sul ruolo del
nazionalismo polacco, e successivamente quando Béla Kun introdusse il termine
durante il governo rivoluzionario ungherese (1918-19). La questione attraversa
quel decennio, passando per il movimento consigliare tedesco e poi per il
sindacalismo rivoluzionario italiano, significando che un anticapitalismo non
marxista è indispensabile allo sviluppo del fascismo. Ma per discutere a dovere
la questione, certamente importante, bisognerebbe risalire al trattato di
Rapallo, per focalizzare proprio quel periodo del nazionalismo
“antimperialista” del periodo della mancata rivoluzione tedesca nel 1923.
Infine, ma non per importanza, sarebbe anche indispensabile ricostruire gli
addentellati culturali, filosofici, esteticisti del nazionalbolscevismo nella
“rivoluzione conservatrice” come espressa dall’ideologia aristocratica che, da
degenerazione irrazionalistica (v. Lukacs) passa da Drieu La Rochelle, al
movimento Dada (H. Ball) giù giù, guarda caso, fino a Sorel (ammiratore di
Lenin e Mussolini!). Per una focalizzazione del problema posso rinviarti alle
poche pagine (dunque leggibili molto più velocemente della “lunga Introduzione”
di Basile) di Loren Goldner, Dal nazionalbolscevismo all’ecologismo, in
L’avanguardia della regressione, PonSinMor, Torino, 2004, pp. 102-106, che vi
include pensatori come Heidegger e statisti come Mao tse Tung.
Per la precisione, e scusami se te lo dico, è troppo
sommario che tu citi la tesi del nazionalbolscevismo versione Graphos a
proposito del libro di Garaudy, oltretutto distorcendone il senso. La tesi di
Garaudy tu la virgoletti così: “L’olocausto come mito fondante di Israele”, ma
basta il titolo “I miti fondatori della politica israeliana” per smentirne
l’interpretazione di una inversione idealistica del problema. Quanto a Garaudy,
per onestà, occorre dire che Graphos premette subito di non ritenerlo, oggi, un
marxista, e che nel suo libro, volto a combattere la confusione tra mito e
storia e a fornire dati di fatto per la ricostruzione del mito sionista di
quello che non a caso ha di proposito assunto la terminologia rituale-sacrale
dell’Olocausto, Garaudy espone la tesi che tu gli attribuisci: “pensare che uno
stato imperialista sia fondato su un mito è puro idealismo”. Ma qui, caro
Michele, non stiamo discutendo della natura dell’imperialismo, se sia una
politica come sosteneva Kautsky o la “fase suprema del capitalismo (come
sosteneva Lenin). Peraltro qualche dubbio ci sarebbe quando definisci il
sionismo come “cane da guardia dell’imperialismo occidentale nel Medio
Oriente”, dal momento che è difficile percepire in concreto il contenuto di
questa astrazione che è come la notte in cui tutte la vacche sono nere, mentre
nel concreto quel che si percepisce realmente così come è oggi, e ci sarebbe da
aggiungere qualcosa su come è nato in Europa, è sostenuto senza condizioni
dagli Stati Uniti sia come base di accordi più e meno stretti con i concorrenti
europei sia come asse della presenza strategica nel Medioriente, “vitale” per
gli USA e come tale fonte di ben cinque guerre; sionismo alimentato e
supportato dalla ultrapotente lobby ebraica che influenza sia la potenza Usa
sia la così detta opinione pubblica media mondiale.
Per il resto
1. che il massacro degli ebrei non sia da vedere “come
fatto a sé isolato”, sono d’accordo ed è quanto ho sostenuto (e ancora una
volta non si capisce perché lo sottolinei o dove stia il disaccordo)
2. Sono d’accordo con te anche sui dettagli e le cifre
fornite degli altri massacri, su Hiroshima e Nagasaki: e, per dimostrare il tuo
assunto, che non si tratta di questioni tecnico-militari, io aggiungerei il
bombardamento di Dresda, a guerra largamente conclusa!.. Per dire che
l’Occidente è anch’esso un mito con cui fare i conti, ma ad altra occasione.
Ma che “i popoli commemorano i propri morti in un
clima di sciovinismo più o meno mascherato” è davvero un’espressione che non
trova riscontro nei fatti: da quanto in qua il così detto “popolo” è un
soggetto reale nel capitalismo? Tu credi davvero che sia il “popolo” italiano
quello delle retoriche delle giornate della “memoria”? O quello del mito degli
italiani “brava gente”? Certo che c’è sciovinismo in quelle commemorazioni, ma
fortunatamente dietro non c’è l’astrazione popolo ma semplicemente gli
interessi forti in quel momento. Il problema del popolo-stato-nazione è
tramontato, da quando fatti e misfatti del capitalismo riguardano le classi in
lotta. Se vogliamo essere rigorosi la questione della sorte del così detto
“popolo” ebraico, in realtà della piccola borghesia di origine ebraica
concentrata nel triangolo Germania-Polonia-Ungheria e variamente in Europa, di
fronte alla crisi inter guerra del capitalismo mondiale culminante nel 1929 e
suoi effetti in Germania, riguardava proprio lo schiacciamento di questo strato
sociale nel processo di concentrazione e centralizzazione del capitale. Un
capitolo che si può e si deve approfondire nei dettagli.
Né si può invece essere indifferenti, o meglio cadere
nell’indifferentismo “se uccisi con le camere a gas o uccisi per
maltrattamenti”, perché entrambe le “modalità di brutalità” mettono capo, se
accertate, a due diverse realtà, a due diversi fini. Si da il caso però che le
camere a gas e i forni crematori ancora oggi vengano confusi nella vulgata
popolare, e che dell’esistenza di camere a gas con precipuo scopo di sterminio
non esistano prove storiche, mentre esistono prove di forni crematori per la
cremazione dei cadaveri, cioè di persone già morte. E di luoghi di disinfestazione
di fronte alle accertate epidemie anche di peste. Il perché dell’accanimento
contro la messa a punto storica di questo problema è connesso proprio al “mito”
preconfezionato dello sterminio programmato di un popolo, stante anche
il fatto che il nazismo certamente era interessato ad una massiccia
deportazione della piccola borghesia ebraica, piuttosto che ad una costosa e
improduttiva decimazione.
Sono d’accordo con te anche su quella che tu chiami “connivenza”
delle potenze “occidentali” (e chi te la toglie dalla testa questa mostruosa
astrazione! Nomi e cognomi ci vogliono!) nel respingere al mittente gli ebrei
in fuga. Preciserei solo che di moltissimi di questi (un milione secondo
Eichmann, che però si riferisce ad un solo caso), secondo la famosa missione
mediatrice di Joël Brand (in A. Weissberg, La storia di Joël Brand), si
tratta di veri accordi di emigrazione clandestina organizzate dalle SS del
Judenkommando, con Himmler direttamente, tramite organizzazioni semiclandestine
di ebrei, ungheresi in questo caso, tollerate anche con la corruzione. Ma il
ministro di Stato britannico Lord Moyne, a dispetto delle proclamazioni
umanitarie degli Alleati, rispose picche. Ma questi sono dettagli per chi come
D’Orsi e la genia degli intellettuali non si pone neppure il problema.
D’accordo con te sul pellegrinaggio di Herzl ecc.
nella costruzione del sionismo. Il sionismo è figlio del nazionalismo europeo e
degli intrecci della lotta interimperialista che si conduceva sul terreno
europeo e comprendeva la potenza Usa in ascesa. Ti dirò un piccolo particolare,
il brodo culturale di Herzl si nutre di un classico che è opera di un
astigiano, il Della tirannide di
Vittorio Alfieri. Ti dice qualcosa? D’accordo, ripeto, d’accordo che il
sionismo sia un prodotto dell’imperialismo e che l’imperialismo si cibi delle
vittime del genocidio, sempre precisando che nelle lotte tra imperialismi non
ha senso l’aggressore e l’aggredito, ma solo tra imperialisti e vittime, sia
nella guerra diretta che nei campi di lavoro che nelle fabbriche.
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