lunes, 10 de julio de 2017

Il colonialismo non è finito (Marco Cedolin)

Marco Cedolin, Dolce Vita/Il Corrosivo, 05/07/2017 - Via Selvas


Quando si parla di stermini e vessazioni perpetrate ai danni delle comunità indigene ad opera del colonialismo occidentale, il pensiero corre subito agli Aztechi, ai Maya ed ai Nativi americani, trattandosi di alcune fra le tragedie più eclatanti disseminate fra le pieghe della storia.

Una storia, quella del colonialismo, troppo spesso declinata nel segno della predazione delle risorse, realizzata attraverso il genocidio o la messa in schiavitù dei popoli autoctoni la cui presenza risultava d’intralcio all’incedere del progresso. 

È opinione comune il convincimento che la pratica del colonialismo predatorio rappresenti un retaggio del passato, mentre nel mondo moderno, assai più rispettoso dei diritti, tragedie del genere mai potrebbero ripetersi; ma purtroppo anche nella nostra contemporaneità la predazione di risorse e l’oppressione dei popoli indigeni risultano essere pratiche estremamente diffuse.

Attualmente i popoli indigeni che vivono nel mondo ammontano ad alcune centinaia di milioni di persone e la metà di loro è classificata come popolazione tribale. Formalmente la legge garantisce loro i diritti che dovrebbero appartenere ad ogni individuo, ma in molti casi tali diritti restano un’illusione.

Nell’Africa meridionale i Boscimani vivono da tempo immemorabile nelle loro terre, praticando l’autoproduzione, in un rapporto simbiotico con l’ambiente naturale che li circonda. La scoperta di nuovi giacimenti di diamanti nei territori da loro occupati ne ha determinato la deportazione all’interno di campi di reinsediamento dove sono costretti a vivere come profughi, deprivati del diritto di condurre la propria esistenza così come avevano fatto per millenni.

In Etiopia i popoli della valle dell’Omo, circa 200mila persone che da secoli vivono nel proprio territorio praticando un’agricoltura di sussistenza favorita dalle piene naturali del fiume, stanno perdendo la propria indipendenza e sicurezza alimentare a causa della costruzione della mega diga Gibe III (ad opera della società italiana Salini Costruttori) che stravolgerà pesantemente l’ambiente in cui vivono, più di quanto non abbiano già fatto finora le coltivazioni intensive finalizzate alla produzione di biocarburanti imposte dal governo.

Nella foresta amazzonica del Perù vivono almeno 15 tribù indigene che non hanno finora avuto nessun contatto con il mondo esterno: si tratta prevalentemente di cacciatori e raccoglitori semi-nomadi che vivono in piccoli gruppi famigliari e si spostano frequentemente all’interno di un territorio circoscritto. Le compagnie petrolifere ed i taglialegna illegali stanno mettendo a repentaglio non solo l’integrità dell’ambiente in cui conducono la propria esistenza, ma anche la loro stessa possibilità di sopravvivenza, dal momento che non possiedono difese immunitarie nei confronti delle malattie occidentali e qualsiasi contatto rischia di essere letale.

In Guatemala, a causa della costruzione della diga Chixoy che sorge sull’omonimo fiume ed ha iniziato la propria attività nel 1983, migliaia di abitanti in gran parte indigeni Maja Achì, da sempre dediti all’agricoltura e alla pastorizia, vennero privati delle loro terre e deportati all’interno di villaggi allestiti dalle autorità militari. Negli scontri determinati dal rifiuto delle popolazioni indigene di abbandonare le terre in cui vivevano vennero trucidate 487 persone.

Ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli: in Australia la popolazione aborigena, dopo essere stata decimata nel corso di un solo secolo dalla colonizzazione, oggi vive in condizioni disumane spesso nelle periferie degradate delle città. 
Anche nel mondo moderno, ogni qualvolta nei territori in cui vivono esistano risorse degne di un qualche interesse, i popoli indigeni continuano purtroppo ad essere depredati, vessati e violentati senza alcuna pietà.
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