miércoles, 3 de febrero de 2016

QUESTIONE PALESTINESE E INTERNAZIONALISMO PROLETARIO

Dante Lepore, Inchiesta Operaia, II, n. 4, Novembre-dicembre 2000

Pubblichiamo questo interessante articolo di sedici anni fa sulla questione palestinese. Vedasi anche: Evoluzione della mappa della Palestina

Gli accordi di Oslo di 7 anni fa (*) avrebbero dovuto avviare un "processo di pace" in Medio Oriente, con la costituzione di uno Stato sovrano palestinese. Di fatto, però, la sistematica installazione di coloni ebrei a Gerusalemme, nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, non si è mai arrestata. Si verifica dunque un'annessione di fatto tendente a rafforzarsi giuridicamente e a consolidarsi militarmente al punto che la Cisgiordania si è trasformata in un puzzle di 9 enclave nelle quali la così detta Autorità di Arafat è paradossalmente infeudata ai governi d'Israele contro lo stesso popolo palestinese. Gli interessi delle frange di coloni ebrei, che si esprimono politicamente come forze di estrema destra sionista, condizionano il parlamento (la Knesset) e tutti i governi israeliani, da quello del massacratore di Sabra e Chatila Sharon a quelli di Rabin, di Netanyahu, di Barak.


Si ripete una condizione non nuova, già caratteristica dell'epoca coloniale, da quella d'Algeria a quella dell'apartheid sudafricana. Anche in Algeria, infatti, i coloni europei (piedi neri) condizionarono tutti i governi compreso quello di "sinistra" di Guy Mollet, eletto per analogo "processo di pace", ma costretto a fare la guerra. La stessa prospettiva di una forma medio orientale dell'apartheid non è meno gravida di atti legati all'intolleranza religiosa, al nazionalismo, alle pulizie etniche e tribali.

In questo ottobre insanguinato dalla ripresa degli scontri, il vertice della Lega Araba al Cairo del 20 e 21, ha messo allo stesso tavolo capi di stato come l'egiziano Mubarak, monarchi feudali d'Arabia Saudita, degli Emirati e di Giordania, nonché leaders oltranzisti come quelli libici, siriani, irakeni i cui governi sono notoriamente delle forme più o meno pesanti di dittatura non certamente proletaria. Ipocritamente, un mare di parole demagogiche per i "fratelli palestinesi oppressi da Israele", ma di concreto poche briciole in denaro. Non poteva finire diversamente, dal momento che una rivolta del popolo palestinese che riesca a contagiare e coinvolgere gli oppressi e sfruttati di tutta quell'area costituirebbe un serio pericolo per le borghesie arabe e i loro governi. Questi ultimi, specie a partire dal fallimento della loro alleanza contro Israele nella Guerra dei "sei giorni" (1967), non a caso tollerano appena quelle organizzazioni palestinesi direttamente subordinate, mentre verso quelle indipendenti impegnate ad organizzare la lotta delle popolazioni l'atteggiamento è duro e, dove i rifugiati sono più numerosi, come in Giordania e Libano, si arriva ai massacri, come quello promosso dal defunto monarca Hussein nel "settembre nero" del 1970 e quello attuato dal governo libanese nel 1975.

Le cose non sono mutate da allora: gli stati arabi sono espressione diretta delle rispettive borghesie, e i dirigenti palestinesi, più che prendere atto delle oggettive potenzialità rivoluzionarie esistenti negli strati sfruttati e oppressi di tutta l'area medio orientale, erano e sono in diretto antagonismo tra loro, impegnati nel circoscrivere in termini nazionali localistici il problema palestinese. Arafat, capo di Al Fatah, non era né è migliore degli altri, neppure del sedicente marxista Habbash, leader del FPLP:  semplicemente è riuscito meglio a giocare nelle loro mutevoli alleanze, nell'intento di procurare uno spazio politico alla propria borghesia. Per poterlo fare, poiché difendere una borghesia lo si può fare solo sfruttando e opprimendo il proletariato che ne è il complemento, ha dovuto e deve agire contro ogni tentativo rivoluzionario dei palestinesi che tenda ad allargarsi alle masse arabe e al proletariato stesso di Israele, trasformandosi in aperta guerra civile, in questo unico caso capace di porsi su un terreno di classe, anticapitalista e internazionalista.

In questo ruolo, e come espressione di un ristretto strato di notabili palestinesi, Arafat è stato visto, sia dai governanti arabi, sia da Israele, sia dalle potenze imperialiste, come un elemento di stabilità, una stabilità condita dall'immancabile connubio di corruzione, di dispotismo e sovente di oscurantismo religioso.

Il protrarsi delle dure condizioni di esistenza dei palestinesi, lo stillicidio inarrestato e provocatorio delle colonizzazioni israeliane, il ruolo poliziesco dell'Autorità Palestinese, hanno condotto ai sanguinosi scontri di ottobre, che marcano da un lato la sfiducia verso il burattino Arafat e al tempo stesso la constatazione consapevole che non gli inutili vertici diplomatici ma le dure lotte dei palestinesi hanno portato in passato e portano a qualche concessione. Di tale situazione tentano di avvantaggiarsi le organizzazioni integraliste islamiche (Hamas) che strumentalizzano in una "guerra santa", fatta di fionde contro armi automatiche, i bambini e, in questo caso, il preteso "rimedio" sarebbe peggiore del male, non meno fonte di miseria e sfruttamento delle popolazioni palestinesi e ugualmente impotente verso Israele e l'imperialismo. Ma neppure gli strati salariati e tutti i lavoratori d'Israele possono a lungo accettare che i propri governi li utilizzino in una guerra sanguinosa senza fine e senza uscita. Che questa demarcazione avvenga potrebbe essere negato solo quando si immagini il popolo israeliano come un'indifferenziata massa borghese "sionista", o quando si pensi che l'ideologia nazionalista possa per sempre conciliare gli oggettivi inconciliabili antagonismi di classe.

D'altra parte, negli stati arabi, quella parte di popolazione in condizione di sfruttamento e di oppressione da parte di quei regimi, ha motivi oggettivi per saldarsi in una lotta rivoluzionaria a carattere di classe e internazionalista. E la stessa classe operaia israeliana, per quanto ristretta, non può essere superficialmente assimilata ad un'indifferenziata aristocrazia operaia legata all'opportunismo e al laburismo del Likud. E allora, ossia quando il carattere di questa lotta diventasse proletario e internazionalista, si vedrebbero da una parte le borghesie dell'area, israeliana e araba, e gli imperialismi che finora hanno sfruttato ogni tensione per gestire le loro contese affaristiche in Medio oriente, legate alla rendita petrolifera e alla finanza internazionale, dall'altra tutti gli sfruttati e oppressi di quella zona insieme ai proletari dei paesi imperialisti occidentali. E la parola d'ordine sarà una sola:
Proletari di tutto il mondo, unitevi!

(*) Gli accordi di Oslo risalgono al 13 settembre 1993
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