Dante Lepore, Inchiesta Operaia, II, n. 4, Novembre-dicembre 2000
Pubblichiamo questo interessante articolo di sedici anni fa sulla questione palestinese. Vedasi anche: Evoluzione della mappa della Palestina
Gli
accordi di Oslo di 7 anni fa (*) avrebbero dovuto avviare un "processo di
pace" in Medio Oriente, con la costituzione di uno Stato sovrano palestinese. Di fatto, però, la sistematica
installazione di coloni ebrei a Gerusalemme, nei territori palestinesi occupati
in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, non si è mai arrestata. Si verifica
dunque un'annessione di fatto tendente a rafforzarsi giuridicamente e a
consolidarsi militarmente al punto che la Cisgiordania si è trasformata in un
puzzle di 9 enclave nelle quali la
così detta Autorità di Arafat è paradossalmente infeudata ai governi d'Israele
contro lo stesso popolo palestinese. Gli interessi delle frange di coloni
ebrei, che si esprimono politicamente come forze di estrema destra sionista,
condizionano il parlamento (la Knesset) e tutti i governi israeliani, da quello
del massacratore di Sabra e Chatila Sharon a quelli di Rabin, di Netanyahu, di
Barak.
Si ripete una condizione non nuova, già caratteristica
dell'epoca coloniale, da quella d'Algeria a quella dell'apartheid sudafricana. Anche in Algeria, infatti, i coloni europei
(piedi neri) condizionarono tutti i
governi compreso quello di "sinistra" di Guy Mollet, eletto per
analogo "processo di pace", ma costretto a fare la guerra. La stessa
prospettiva di una forma medio orientale dell'apartheid non è meno gravida di atti legati all'intolleranza
religiosa, al nazionalismo, alle pulizie etniche e tribali.
In questo ottobre insanguinato dalla
ripresa degli scontri, il vertice della Lega Araba al Cairo del 20 e 21, ha
messo allo stesso tavolo capi di stato come l'egiziano Mubarak, monarchi
feudali d'Arabia Saudita, degli Emirati e di Giordania, nonché leaders
oltranzisti come quelli libici, siriani, irakeni i cui governi sono
notoriamente delle forme più o meno pesanti di dittatura non certamente
proletaria. Ipocritamente, un mare di parole demagogiche per i "fratelli palestinesi oppressi da
Israele", ma di concreto poche briciole in denaro. Non poteva finire
diversamente, dal momento che una rivolta del popolo palestinese che riesca a
contagiare e coinvolgere gli oppressi e sfruttati di tutta quell'area
costituirebbe un serio pericolo per le borghesie arabe e i loro governi. Questi
ultimi, specie a partire dal fallimento della loro alleanza contro Israele
nella Guerra dei "sei giorni" (1967), non a caso tollerano appena
quelle organizzazioni palestinesi direttamente subordinate, mentre verso quelle
indipendenti impegnate ad organizzare la lotta delle popolazioni
l'atteggiamento è duro e, dove i rifugiati sono più numerosi, come in Giordania
e Libano, si arriva ai massacri, come quello promosso dal defunto monarca
Hussein nel "settembre nero" del 1970 e quello attuato dal governo
libanese nel 1975.
Le cose non sono mutate da allora: gli
stati arabi sono espressione diretta delle rispettive borghesie, e i dirigenti
palestinesi, più che prendere atto delle oggettive potenzialità rivoluzionarie
esistenti negli strati sfruttati e oppressi di tutta l'area medio
orientale, erano e sono in diretto
antagonismo tra loro, impegnati nel circoscrivere in termini nazionali
localistici il problema palestinese. Arafat, capo di Al Fatah, non era né è migliore degli altri, neppure del
sedicente marxista Habbash, leader del FPLP:
semplicemente è riuscito meglio a giocare nelle loro mutevoli alleanze,
nell'intento di procurare uno spazio politico alla propria borghesia. Per
poterlo fare, poiché difendere una borghesia lo si può fare solo sfruttando e
opprimendo il proletariato che ne è il complemento, ha dovuto e deve agire
contro ogni tentativo rivoluzionario dei palestinesi che tenda ad allargarsi
alle masse arabe e al proletariato stesso di Israele, trasformandosi in aperta
guerra civile, in questo unico caso capace di porsi su un terreno di classe,
anticapitalista e internazionalista.
In questo ruolo, e come espressione di un
ristretto strato di notabili palestinesi, Arafat è stato visto, sia dai
governanti arabi, sia da Israele, sia dalle potenze imperialiste, come un
elemento di stabilità, una stabilità condita dall'immancabile connubio di
corruzione, di dispotismo e sovente di oscurantismo religioso.
Il protrarsi delle dure condizioni di
esistenza dei palestinesi, lo stillicidio inarrestato e provocatorio delle
colonizzazioni israeliane, il ruolo poliziesco dell'Autorità Palestinese, hanno
condotto ai sanguinosi scontri di ottobre, che marcano da un lato la sfiducia
verso il burattino Arafat e al tempo stesso la constatazione consapevole che non
gli inutili vertici diplomatici ma le dure lotte dei palestinesi hanno portato
in passato e portano a qualche concessione. Di tale situazione tentano di
avvantaggiarsi le organizzazioni integraliste islamiche (Hamas) che
strumentalizzano in una "guerra santa", fatta di fionde contro armi
automatiche, i bambini e, in questo caso, il preteso "rimedio"
sarebbe peggiore del male, non meno fonte di miseria e sfruttamento delle
popolazioni palestinesi e ugualmente impotente verso Israele e l'imperialismo.
Ma neppure gli strati salariati e tutti i lavoratori d'Israele possono a lungo
accettare che i propri governi li utilizzino in una guerra sanguinosa senza
fine e senza uscita. Che questa demarcazione avvenga potrebbe essere negato
solo quando si immagini il popolo israeliano come un'indifferenziata massa
borghese "sionista", o quando si pensi che l'ideologia nazionalista
possa per sempre conciliare gli oggettivi inconciliabili antagonismi di classe.
D'altra parte, negli stati arabi, quella parte di popolazione in condizione di
sfruttamento e di oppressione da parte di quei regimi, ha motivi oggettivi per
saldarsi in una lotta rivoluzionaria a carattere di classe e internazionalista.
E la stessa classe operaia israeliana, per quanto ristretta, non può essere
superficialmente assimilata ad un'indifferenziata aristocrazia operaia legata
all'opportunismo e al laburismo del Likud. E allora, ossia quando il carattere
di questa lotta diventasse proletario e internazionalista, si vedrebbero da una
parte le borghesie dell'area, israeliana e araba, e gli imperialismi che finora
hanno sfruttato ogni tensione per gestire le loro contese affaristiche in Medio
oriente, legate alla rendita petrolifera e alla finanza internazionale,
dall'altra tutti gli sfruttati e oppressi di quella zona insieme ai proletari
dei paesi imperialisti occidentali. E la parola d'ordine sarà una sola:
Proletari di tutto il mondo, unitevi!
(*) Gli accordi di Oslo risalgono al 13 settembre 1993
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